Divieto di ricordare

Ridley Scott salva Geta dalla damnatio memoriae, da non confondere con la cancel culture

Tommaso Ricci

La scelta del regista britannico di assegnare, nel film Il Gladiatore II, più spazio a Geta rispetto al fratello assassino Caracalla è una buona notizia per tutti quelli che giacciono dannati sui fondali della storia

È il potere che causa la follia, o invece sono gli squilibrati i più predisposti al potere? Nel sequel tutto sangue e arena, “Il Gladiatore II”, Ridley Scott chiama in scena due imperatori romani malvagi, corrotti e pazzoidi, Caracalla e Geta, fratelli entrambi destinati a perire non nel proprio letto. Ma se il primo, che assassinò il secondo, ha lasciato nella storia giunta sino a noi le vestigia delle imponenti terme romane, l’altro è pressoché scomparso dai radar. Oggi il nome Geta dice qualcosa solo agli spettatori del film, appunto, o agli studiosi di damnatio memoriae, essendo quello di Geta uno dei casi di scuola più eclatanti della storia.

   

Dopo la sua atroce fine – fu attirato disarmato perché alla presenza della mamma Giulia Domna, in un mendace tentativo di riconciliazione tra fratelli e fu trucidato da centurioni lì convocati da Caracalla; morì aggrappato alle braccia materne, senza sapere, e non lo sappiamo neanche noi, se la madre fosse al corrente oppure ignara del progetto omicida –,  Caracalla, ormai rimasto imperatore unico, dispose, oltre allo sterminio dei sostenitori di Geta e dei loro parenti (tra le vittime della purga l’insigne giurista Papiniano che s’era rifiutato di redigere un’apologia del fratricidio), la damnatio memoriae per il fratello, mediante cancellazioni di immagini da superfici e da monete, distruzione dei busti scolpiti, abrasione d’ogni riferimento, come avvenne per il nome sull’Arco trionfale di Settimio Severo al Foro romano e del volto sull’Arco severiano a Leptis Magna, sua città natale in Libia. Altro celebre esempio nel tondo conservato a Berlino: un ritratto della famiglia imperiale con un unico figliolo e una vistosa cancellatura dove era il secondo. L’oblio doveva essere totale, Geta non era mai esistito.

    

Ma ovviamente, in quell’anno di impero congiunto (211 d.C.) e anche prima, l’autorità di Geta era stata omaggiata. Lontano da Roma, chi possedeva un’erma o un busto del figlio minore di Settimio Severo, chi lo conosceva per una certa amabilità di contro all’iracondia del primogenito Caracalla, e soprattutto chi, in provincia, non temeva il controllo capillare dell’obbligo imperiale all’amnesia, invece di distruggere il manufatto, magari lautamente pagato, lo nascose. Capita così che oggi il Museo archeologico di Caltanissetta disponga d’uno dei rarissimi ritratti in pietra di Geta (altri a Orvieto e al Louvre) diventati, proprio grazie all’effetto damnatio, oggetti preziosi, che spiccano in quanto sopravvissuti a una sentenza di morte (siamo lontani dall’orwelliano “buco della memoria” operato dal Partito unico in “1984”). 

   
In epoca di cancel culture è facile confondere con essa la damnatio memoriae – e indubbiamente c’è una cuginanza concettuale – ma mentre la seconda ha più la parvenza d’una colpa morale, d’un atto esecrabile compiuto per svigorire la presunta minaccia d’un ricordo scomodo al potere, ed è comunque revocabile, la prima appare più come una patologia dello spirito, una cecità nella lettura del passato incubata nel carcere dell’eterno presente nel quale la mentalità mainstream odierna è imprigionata. La cancel culture è furore dal basso, magmatico, a forte contagio e con pretesa di raddrizzare la storia trascorsa (e insieme avvelenare il presente), la damnatio è ingiunzione dall’alto, delimitata, fredda, concepita come punizione. Una è ideologica, l’altra è politica, per la prima non si dà istanza giurisdizionale in grado di sanzionarla, per la seconda basterebbe una qualunque Corte internazionale di giustizia dell’Aia. Peraltro, se il caso di Geta rappresenta una delle applicazioni più plateali del divieto di ricordare, esso ha al contempo stimolato nei posteri un persistente gusto nel cancellare la cancellazione: ne fanno fede i vari artisti che, a secolare distanza di sicurezza e forse anche per spirito di compassione verso un perdente della storia, ne dipinsero la tragica fine. Jacques Pajou, pittore di storia al tempo della Rivoluzione e Restaurazione francese, lo ritrae in braccio a mammà che tenta invano di difenderlo, l’olandese Lawrence Alma-Tadema dipinge i due fratelli insieme con il padre ancora regnante; la scena del delitto ispirò anche Nicolas Poussin e Bartolomeo Pinelli, in un’acquaforte. La scelta di Ridley Scott di assegnare nel film pari spazio, se non superiore, a Geta rispetto al fratello assassino è una buona notizia per tutti i Geta che giacciono dannati sui fondali della storia.

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