
Jane Birkin e Serge Gainsbourg (foto Getty Images)
Pranzo sul set
Una questione delicata. Le società che hanno sfamato attori e registi
Colin Farrell, ringraziando per il Golden Globe lo scorso gennaio, non ha dimenticato i lavoratori che avevano rifocillato e riscaldato gli attori nel freddo inverno di New York. Viaggio tra chi prepara i pranzi ad attori, registi e troupe
La troupe di “Marie Antoniette”, il film francese di Sofia Coppola sulla regina ghigliottinata, ebbe a suo tempo il diritto di veto sulla società che avrebbe dovuto fornire i cestini per il pranzo sul set. Lavorando fuori studio, non sempre è possibile raggiungere le mense: piccole o grandi che siano, fisse o improvvisate. Votarono, il fornitore fu deciso a maggioranza, cose che succedono solo in Francia, uno direbbe. Pensate a “Game of Thrones”: una decisione democratica avrebbe richiesto troppo tempo. Vi possiamo però rassicurare che nessuna comparsa è andata via affamata, come nessun costumista, e nessun elettricista: i rispettivi sindacati avrebbero protestato fino allo sciopero. Colin Farrell, ringraziando per il Golden Globe lo scorso gennaio, non ha dimenticato i lavoratori che avevano rifocillato e riscaldato gli attori nel freddo inverno di New York – con il latte di cocco. E chi preparava i pranzi – meno spesso le cene, il cinema si fa di giorno perché la luce naturale non ha eguali: tutte le attrici minorenni, agli inizi, lavoravano perché era facile illuminare i loro primi piani, nelle riprese in esterni. Quando si lavora in studio, la scena della mensa è un classico: qua gli antichi romani, là i guerrieri medievali con le alabarde, un po’ distanti le ballerine di fila, e i cowboy. Ce n’è una in “Mezzogiorno e mezzo di fuoco” di Mel Brooks. Un’altra in “La la land” di Damien Chazelle: l’aspirante diva prima serve i cappuccini ai tavoli, poi torna trionfante come cliente, con un cappello a tesa larghissima.
“Empire” di maggio (2025, hanno il vizio di fare uscire il numero quando ancora non è neanche aprile) ne approfitta per curiosare tra le aziende del mestiere.
La serie “The Franchise” raccontava l’affollato set di un film di supereroi (un sequel di un sequel, non di prima categoria, e dove tutto quel che può andar male va male, e su un set la legge di Murphy dà il suo meglio). Hot Goblin era la ditta incaricata, doveva servire 400 persone: finì che qualche attore, non di primo piano, si mise ad aiutare nel servizio. Per fortuna, ricorda il titolare, non avevo rivali. Dal camion uscirono enormi quantità di linguine con gli scampi, tajine di melanzane, e pollo al curry. Per il breakfast, che gli addetti cominciano preparare alle cinque (il cinema si fa di giorno, preferibilmente di mattina presto, sempre per via della luce naturale, e ora di certi personaggi che richiedono ore di trucco prostetico) c’era uno specialista in omelette. Scelto da Anthony Hopkins, che il suo salmone lo vuole molto ma molto cotto, anche per una scena di “The Father”. “Vali quanto il tuo ultimo film” è la misura del valore a Hollywood, per attori e produttori. Per l’industria del catering, “vali quanto l’ultimo pasto che hai servito”. I primi ad arrivare sul set, e gli ultimi a andarsene. Negli anni d’oro (dai ’20 ai ’50) gli attori mangiavano alla mensa aziendale. Un menù del Warner Bros Studio Café, datato 1941, proponeva bistecche, fagioli stufati, cocktail di granchi e molta birra. I ristoranti fissi cominciano a scomparire negli anni ’60, lasciando posto a camioncini attrezzati. Da spostare dove necessario, di varie grandezze. Il mestiere non aveva rigide barriere d’entrata. Poco tempo dopo essersi proposto a un catering,
Dave Chorley era sul set de “Il quinto elemento” di Luc Besson. A discutere: “Poteva un furgoncino di McDonald’s attraversare la scena, e dar da mangiare agli attori che recitavano la parte degli alieni senza che si dovessero togliere il costume?” Cucinare è il meno. Complicata è la logistica: in un “Robin Hood” sbagliarono collocazione, il cibo fu infilzato dalle frecce.