
Nell'acquario nichilista di “White Lotus” alla ricerca del proprio destino
Una serie tv, il dramma e insieme il fascino del nostro io, che non è in nostro potere. Una lettura della terza stagione del prodotto HBO
E’ possibile che una serie televisiva sollevi un problema il più delle volte taciuto, come è quello del destino del nostro essere al mondo? Sì, è possibile, se si tratta di “The White Lotus”, la serie HBO giunta in questi giorni alla sua terza stagione, che appunto fa emergere potentemente una questione che si sarebbe creduta importuna o impossibile da risolvere – come una ferita profonda che non si rimargina o un desiderio segreto che non si confessa mai. Ma che alla fine esplode e ci permette di riconoscere nella storia raccontata il dramma e insieme il fascino del nostro io. Di un essere cioè che è “tessuto” di destino. Che non è mai semplicemente quello che è o che fa, quello che deve essere o che deve fare, ma è una ricerca continua del senso del proprio essere e del fine del proprio fare. Il modulo narrativo si ripete, come nelle due stagioni precedenti: un Resort di gran lusso, questa volta in Thailandia, in cui si ritrova un gruppo di persone ricche e di successo, la cui vacanza patinata nasconde però tutta l’insicurezza, la fragilità e la violenza repressa sedimentate nel loro cuore da una vita alla ricerca del potere e della riuscita ad ogni costo. Persone “realizzate” nel loro profilo sociale ed economico, ma spesso terribilmente “incompiute” nel loro desiderio di felicità e nel bisogno di essere amate.
Qual è il destino di queste persone? sembra chiedersi Mike White, l’autore di questa storia. Esso si svela, e insieme si nasconde, negli eventi, negli incontri, nelle circostanze del vivere e finanche in quel microcosmo che è un villaggio turistico, in cui come pesci in un acquario le persone mostrano tutte le loro attese, le loro paure e le loro nevrosi. Un perfetto acquario “nichilista”, se si vuole, in cui tutto funziona al prezzo a volte insostenibile di uno stress che corrode nel profondo la vita. E proprio in un dialogo tra Rick Hatchett – un inquieto e febbrile cinquantenne in vacanza con Chelsea, la sua giovane fidanzata – e Amrita, una specialista nella meditazione antistress, che si svela, nel secondo episodio, il punto infuocato della questione. Amrita chiede a Rick se ci sia stato mai un momento della sua vita in cui si è sentito veramente libero, e alla risposta negativa dell’uomo incalza: neanche quando era bambino? E lui di rimando le rivela che sua madre era una tossica, morta quando aveva dieci anni, e suo padre era stato ucciso prima che lui nascesse. L’istruttrice allora lo invita fermamente a staccarsi dalla propria “identità”, cioè dal suo stesso “io”, perché sarebbe lì l’origine del suo disagio. E Rick, con una spiazzante sincerità – che vale più di tante analisi e strategie psicologiche – le risponde: “ma io non ho un’identità, non devo staccarmi da niente, perché sono un niente”. Il nichilismo di fatto del ricco e insoddisfatto occidentale supera a destra il nichilismo terapeutico della meditazione orientale. E quando Amrita gli obietta che questa potrebbe essere un’illusione che lui racconterebbe a sé stesso, Rick rincara la dose: “Se nessuno mette benzina il serbatoio resta vuoto. Questa non è un’illusione; la macchina non parte. Nothing comes from nothing: dal niente non nasce niente”.
Il vero problema non è liberarsi del proprio “sé”, ma al contrario è proprio quello di non avere un sé. Resta la costatazione realistica che un motore non può ripartire se resta vuoto, se non è riempito da qualcosa che lo muova: qualcosa che accada o qualcuno che ci si faccia incontro, che muti il nulla in essere. E che ci faccia scoprire l’io che siamo, una realtà che ci è data, che non si può sopprimere né ridurre a quello che pretendiamo di farne noi o a quello che noi non riusciamo a realizzare. Il nostro io non è in nostro potere; e il segno più evidente di questo è proprio il nostro irrevocabile desiderio di felicità. Diverse altre storie si incrociano e si intrecciano nel “White Lotus”, ciascuna alla ricerca di quel senso del vivere, di quel “destino” di cui siamo fatti ma che è spesso così difficile o doloroso decifrare. Ma è anche l’unica possibilità perché la violenza che nasce dall’insensatezza possa trasformarsi, direi quasi essere “redenta”, da quella pace che nasce dal dire “si” al reale. Ma, per restare solo alla storia particolare che abbiamo scelto come emblematica, nell’ultima puntata Chelsea ritrova, dopo una prova altamente drammatica, il “suo” Rick. “Ora sei libero – gli dice –; è un nuovo inizio (…). Io ti amo. Ho sempre avuto speranza, per via dell’amor fati. Sai che vuol dire? Che dobbiamo accettare il nostro destino, bello o brutto, non provare a cambiarlo”.
Qui genialmente si punta su quella che sembrerebbe l’unica possibile liberazione rispetto all’ansia di voler determinare noi il destino e all’inevitabile frustrazione di non riuscirci. Ma l’amore per il fato non può mai essere scambiato – anche se sarebbe così comodo e tranquillizzante – con una rassegnazione fatalista. Ci vuole un io perché ci sia destino, perché sia riconosciuto – combattuto o rifiutato o infine accettato – il senso ultimo della vita. Da uno che è “niente” non può nascere l’amore all’essere. Se dal nulla non nasce nulla, solo da una vita può nascere la vita. Non è un caso se, nella struggente scena finale, che fa scorrere tutte le storie che abbiamo visto svolgersi fino alla violenza finale e a una nuova pace, un nuovo inizio, passa la melodia commovente di un corale antico, che canta Lo, how a Rose e’er blooming: “Ecco come è germogliata una rosa dalla stirpe di Jesse. E’ sbocciato un fiore luminoso nel freddo dell’inverno, quando la notte stava finendo”. Il destino non è una cosa necessaria che non si può cambiare, ma un evento che può cambiarci.