Difficile per la Cina fare beneficenza all'Europa

Alberto Brambilla

In patria c'è scettiscismo e all'estero nessuno soddisfa le richieste



    In un G20 monopolizzato dalla crisi europea, la richiesta di apprezzamento della valuta cinese è passata sotto traccia. Critiche timide hanno permesso al presidente Hu Jintao di rincarare la dose: "Chiedere ai Paesi emergenti di rivalutare le proprie monete e ridurre le esportazioni non porterà a una crescita bilanciata", ha detto ai leader occidentali. Eppure gli europei si aspettavano qualcosa di diverso dopo le trattative del presidente francese, Nicolas Sarkozy, e la spedizione in Asia dell'amministratore delegato del Fondo salva-stati (European financial stability facility, Efsf), Klaus Regling, alla ricerca di finanziatori.

    A Cannes non c'era traccia del Dragone investitore. "E' troppo presto" per parlare di acquisti, ha ricordato il ministro delle Finanze, Zhu Guangyao, facendo eco a Hu, fiducioso nella "saggezza e capacità" dell'Europa di farcela da sola. Un bagno di realismo formato zen per dire che non c'è interesse, e forse nemmeno il coraggio.

    "C'è una forte opposizione popolare perché la 'povera Cina' usi le sue riserve per la 'ricca Europa'. Anche se molti non sanno che le riserve in valuta estera non possono essere spese in patria", spiega al Foglio Wang Xiaozu, professore di Economia alla Fudan University. "Cina e Europa sono troppo timide. Per la Cina – aggiunge - è troppo presto perché il piano di salvataggio europeo è tuttora oscuro e l'incertezza scoraggia gli investimenti. Inoltre nella proposta europea non è chiaro cosa la Cina riceverà in cambio".

    L'Efsf ha ottenuto il rating massimo dalle agenzie (tripla A), al contrario degli Stati Uniti che l'hanno persa. Il Giappone detiene il 20 per cento dei bond emessi. Ma per la Cina il computo non è pubblico. Si sa però che le riserve valutarie denominate in euro rappresentano il 25 per cento del totale: un'esposizione sull'Eurozona da 600 miliardi di euro.

    "Come tutti gli investitori è in cerca di investimenti certi. Non deve essere considerata un cavaliere bianco", commenta Jonas Parello-Plesner del think tank European council on foreign relations (Ecfr). Le sue riserve valutarie comprendono anche i fondi pensione di una popolazione sempre più anziana. Molti cinesi si ritengono già scottati dall'investimento in dollari e nelle compagnie di Wall Street crollate nel 2008 quindi “ogni spesa su vasta scala in bond europei deve essere giustificata in patria come un investimento sicuro ma gli europei non dovrebbero aspettarsi nulla di più di quanto dettato dalle esigenze finanziarie attuali” aggiunge Parello-Plesner ricordando che “se la Cina volesse dare una mano duratura all'Europa dovrebbe aprire maggiormente il proprio mercato e agevolare le esportazioni così l'Europa si risolleverebbe da sola”.

    Secondo alcuni commentatori, Pechino avrebbe anche spazio di trattativa in campo diplomatico su alcune istanze chiave delle relazioni bilaterali, come la cessazione dell'embargo sull'export di armi, in vigore dalla strage di piazza Tienanmen (1989), ma ancora di più sulla richiesta di riconoscimento dello status di “economia di mercato”, come ricompensa per gli aiuti avanzata dal premier Wen Jiabao al World economic forum. Fino alla volontà di contare di più nel Fondo monetario internazionale. Resta da capire se tali concessioni siano comparabili con degli investimenti finanziari. Il nodo da sciogliere è la trasparenza degli acquisti. Infatti gli Stati Uniti, che pubblicano la cifra del debito in mano ai cinesi allontanando qualsiasi opacità, non possono essere accusati di subordinare le proprie politiche agli interessi del Dragone. “L'Europa dovrebbe stabilire un sistema simile in coordinamento con la Banca centrale europea e i ministeri del Tesoro nazionali e ciò dissiperebbe le speculazioni mediatiche attorno agli acquisti cinesi. Sapere quanto conta la Cina in Europa sarebbe apprezzato sia dagli europei sia dai cittadini cinesi”, conclude Parello-Plesner.

    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.