I conflitti d'interesse dei prof. alle prese con la finanza

Marco Valerio Lo Prete

L'economista Luigi Zingales, italiano di nascita e statunitense di adozione (accademica), ha voluto mettere in guardia i cultori della “triste scienza” presentando i risultati di una sua ricerca che poi diverrà libro: inutile credersi moralmente superiori – è il messaggio di fondo – perché spesso anche gli economisti cadono in tentazione e finiscono “catturati” da interessi particolari, proprio come avviene per i regolatori.

    Tra venerdì e domenica, a Chicago, si è registrata probabilmente la maggiore concentrazione di economisti mai vista negli ultimi mesi su tutto il pianeta: per 72 ore, infatti, si sono svolti in città i seminari annuali dell'American economic association e allo stesso tempo la sessione annuale del “job market” universitario. Da una parte quindi economisti e premi Nobel riuniti a riflettere soprattutto sulla grande crisi, dall'altra decine di professori in cerca di reclute per i propri college e centinaia di Phd in cerca di fortuna. E' in questa occasione che l'economista Luigi Zingales, italiano di nascita e statunitense di adozione (accademica), ha voluto mettere in guardia i cultori della “triste scienza” presentando i risultati di una sua ricerca che poi diverrà libro: inutile credersi moralmente superiori – è il messaggio di fondo – perché spesso anche gli economisti cadono in tentazione e finiscono “catturati” da interessi particolari, proprio come avviene per i regolatori.

    Il concetto di “regulatory capture” finora era stato utilizzato per spiegare le origini della crisi finanziaria, indicando in particolare quei casi in cui un organismo di controllo o sorveglianza statale “creato per agire nell'interesse pubblico” – scrive Zingales – finisce invece per “sostenere gli interessi specifici che dominano nell'industria o nel settore da regolamentare”. Il caso più eclatante? Quello delle porte girevoli tra il mondo della finanza e i palazzi delle authority o della politica negli Stati Uniti. Ciò che il docente di Finanza ha spiegato ai suoi colleghi è che gli economisti però non fanno eccezione: anche loro teoricamente “sono pagati per fare ricerca nell'interesse pubblico” e invece spesso finiscono per “promuovere interessi speciali o commerciali che dominano nel loro campo di studio”.

    Zingales cita la dichiarazione choc di un lobbista delle banche alla ricerca di un esperto del settore immobiliare che potesse aiutarlo a trovare le debolezze di Fannie Mae, azienda parapubblica specializzata nell'emissione di mutui: “Ho provato a trovare accademici dediti a questi temi, ma Fannie aveva già comprato tutta la ricerca nel settore immobiliare. Alcuni mi rispondevano così: ‘Lei mi assicurerà provvigioni per i prossimi 20 anni, come fa Fannie?”.

    Sugli economisti pesa innanzitutto una “pressione ambientale” – esercitata da finanziatori delle Business school e dai regolatori – a orientare in un certo modo le ricerche. Poi c'è il fattore “informazione”: i ricercatori infatti hanno disperato bisogno di dati, e se è vero che “un archivio di dati privato può svoltare la carriera personale”, è probabile che le società proprietarie degli stessi archivi usino questa loro posizione per “promuovere la propria immagine” e “fare lobbying sui regolatori”. E che gli economisti orientino i loro studi per avere accesso ai dati ma non urtare le sensibilità dei proprietari. Senza dimenticare infine la speranza degli accademici di avere scatti di carriera e, soprattutto, di ottenere finanziamenti. Ma non è solo un problema “etico” quello della “cattura” dei cervelli: il fenomeno infatti tende a ridurre la competizione tra idee nuove. Zingales per esempio dimostra che, tra i 150 articoli scientifici più diffusi sull'argomento “stipendio degli executive”, gli articoli con tesi favorevoli a retribuzioni più alte – a prescindere dalla loro qualità – hanno una probabilità del 55 per cento maggiore di essere pubblicati sulle riviste accademiche, e anche una maggiore propensione a essere citati.

    Leggi qui tutto l'articolo