Sulla crisi Ue Draghi inizia a parlare americano

Marco Valerio Lo Prete

Ieri a Davos Mario Draghi ha parlato da americano, pur cercando di non spiacere agli ascoltatori tedeschi. Il presidente della Banca centrale europea ha infatti rivendicato con forza l'importanza delle politiche “non convenzionali” messe in campo dall'Istituto di Francoforte, e non sempre gradite a Berlino; poi ha fatto intendere che non di sola inflazione si può occupare la politica monetaria.

    Ieri a Davos Mario Draghi ha parlato da americano, pur cercando di non spiacere agli ascoltatori tedeschi. Il presidente della Banca centrale europea ha infatti rivendicato con forza l'importanza delle politiche “non convenzionali” messe in campo dall'Istituto di Francoforte, e non sempre gradite a Berlino; poi ha fatto intendere che non di sola inflazione si può occupare la politica monetaria. D'altronde i risultati delle recenti scelte interventiste dell'Eurotower, secondo la maggior parte degli analisti, parlano piuttosto chiaro: certo, ieri in serata Fitch ha tagliato il rating dell'Italia portandolo da “A+” ad “A-” con outlook negativo, ma nella stessa giornata il costo di rifinanziamento del debito del nostro paese, osservato speciale, era sceso ancora. L'interesse offerto agli investitori per piazzare 11 miliardi di Bot semestrali è calato sotto il 2 per cento per la prima volta dal giugno scorso, mentre lo spread tra Btp decennali e Bund ha chiuso a 404 punti, dopo essere arrivato in giornata sotto i 400.

    In attesa delle aste di medio e lungo termine di lunedì, per ora si assiste soprattutto agli effetti benefici della scelta di Draghi che a dicembre ha deciso due aste di rifinanziamento illimitato a tre anni, a tassi bassissimi, per gli istituti di credito del continente. “Sappiamo per certo che abbiamo evitato un enorme credit crunch, un'enorme crisi di liquidità”, ha detto Draghi intervenendo al World Economic Forum. “C'è qualche indizio”, infatti, che i quasi 500 miliardi di euro prestati dalla Bce abbiano sostenuto un temporaneo ritorno di fiducia nella moneta unica: “Il mercato obbligazionario, finora molto inquieto, si è riaperto in una certa misura”. Le banche insomma rifiatano e ricominciano ad acquistare titoli di stato, mentre gli effetti dell'immissione di liquidità sull'economia reale – per stessa ammissione di Draghi – sono ancora da verificare. Anche il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, ha parlato di blocco del mercato interbancario sventato dall'Istituto centrale europeo, eppure i declassamenti delle agenzie di rating continuano a fioccare. Ieri è toccato a Italia, Spagna e Belgio. Draghi però nel pomeriggio non drammatizzava, anzi: “I mercati stanno esagerando il rischio del debito governativo – ha detto un po' a sorpresa – e questo può andare avanti ancora un po'”. A colpire gli osservatori è stata poi un'altra frase dell'ex governatore della Banca d'Italia: la Bce “difende la stabilità dei prezzi in entrambe le direzioni”. Ovvero l'inflazione non deve salire oltre un certo livello, come storicamente richiesto da Berlino e in generale previsto dal Dna della politica monetaria della Bundesbank, ma pure la deflazione deve essere evitata. Anche con interventi “non convenzionali”, appunto, come stanno facendo da tempo altre Banche centrali quali la Fed americana e la Bank of England.

    Così, mentre ieri il segretario al Tesoro americano Timothy Geithner lodava il nuovo corso della Bce, il Wall Street Journal scriveva che in questa crisi gli Istituti centrali “hanno fatto ricorso a prestiti non convenzionali e all'ampliamento del loro portafoglio d'investimenti”. Lo dimostra la rapida espansione dei loro bilanci. Oggi gli asset della Bce pesano quanto il 30 per cento del pil dell'Eurozona, quelli della Fed il 19 per cento del pil statunitense. Con due differenze: primo, la Fed ha visto crescere molto più rapidamente il suo bilancio dall'inizio della crisi di quanto non sia avvenuto alla Bce; e soprattutto gli Istituti di Londra e Washington non hanno temuto sin dal 2007-08 di acquistare quote significative di debito pubblico. Fed e BoE hanno svolto cioè quella funzione di “prestatore di ultima istanza” dei rispettivi stati che invece è vietata, dal trattato Ue e dal rigorismo tedesco, alla Bce.

    Draghi ieri ha comunque sposato una linea più “ortodossa” su altri temi cari a Berlino. Innanzitutto quando ha osservato che gli spread sui titoli governativi sono stati anche “un potente motore di riforma”. Poi soprattutto quando ha lodato il Fiscal compact (“un primo passo verso l'unione fiscale”) e sostenuto che comunque l'unione fiscale “non comincia dalla divisione dei rischi tra paesi” (leggi: Eurobond), “ma da misure interne che restituiscano ‘fiducia' in alcuni paesi dell'euro”.