Perché si riaprono oggi le ostilità tra Stati Uniti e Cina
Valute e dazi della discordia
Bastano pochi giorni di relativa calma sui mercati, ed ecco che riprendono - questa volta simultaneamente - la guerra commerciale e la guerra valutaria tra le principali potenze del pianeta. Il via ufficiale, stamattina, lo hanno dato Unione europea, Stati Uniti e Giappone depositando un ricorso comune presso l'Organizzazione mondiale del commercio (Wto) contro la Cina. Bruxelles, Washington e Tokyo accusano Pechino di imporre restrizioni all'esportazione di "terre rare", quel gruppo di pochissimi minerali fondamentali per l'industria ad alta tecnologia, così da far salire il valore di queste materie prime.
D'altronde questo non è l'unico motivo d'attrito tra Stati Uniti e Cina. Come ricostruito oggi dall'International Herald Tribune, i dossier più spinosi sono almeno quattro: oltre alle terre rare, appunto, fa discutere il settore automobilistico (visto che questo mese Pechino ha stilato una lista di modelli che l'amministrazione pubblica può acquistare, e curiosamente sono tutti cinesi); quello dei pannelli solari (gli Stati Uniti accusano la Cina di sussidiare imprese che poi esportano in tutto l'Occidente); e infine una legge appena approvata dal Congresso consente a società e sindacati statunitensi di far pesare anche giuridicamente i loro interessi contro quelli di paesi "non di mercato".
Perché le ostilità ricominciano proprio oggi? Le ipotesi sono almeno tre. La prima discende dal fatto che guerra genera guerra: proprio ieri la Banca centrale cinese ha fatto capire che lo yuan non è così sottovalutato come si dice, e che quindi la sua rivalutazione (richiesta con veemenza dagli Stati Uniti e in seconda battuta da tutto il blocco occidentale) può anche interrompersi. Una moneta debole, però, avvantaggia ancora una volta le industrie esportatrici cinesi, allo stesso tempo minando il potere d'acquisto di centinaia di milioni di cinesi che invece potrebbero sostenere la domanda interna e far rifiatare le industrie esportatrici di tutto il resto del mondo. Dopo essersi rivalutato di circa il 5 per cento rispetto al dollaro nel 2011, quest'anno lo yuan ha ricominciato a perdere valore: ma se la guerra delle valute non si placa, gli americani tornano a colpire dove possono, sul fronte delle politiche commerciali.
Una seconda spiegazione degli attuali attriti ha a che fare con la campagna elettorale statunitense. In vista delle elezioni di novembre dalle quali dovrà uscire il nome del successore di Barack Obama (o forse la sua conferma), il ricorso alla retorica anti-cinese cresce. Da parte dei repubblicani in corsa per la guida del Grand Old Party, i quali individuano a oriente la fonte dei guai della manifattura americana, e in risposta anche da parte di Obama.
Infine, il fattore Europa. Se Bruxelles può tornare - dopo mesi di quiete su questo fronte - ad allinearsi agli Stati Uniti nel prendere di petto la seconda economia del pianeta, secondo l'International Herald Tribune, questo avviene proprio per il relativo stato di grazia dei mercati. All'indomani del "default ordinato" di Atene, il cataclisma che alcuni prospettavano non si è realizzato; la stampella esterna cinese (attraverso l'acquisto di bond del debito pubblico) fatica a materializzarsi, e quindi ecco che torna possibile un po' di guerriglia su dazi e dintorni.