L'errore tedesco di non voler concedere tempo all'Ue

Marco Valerio Lo Prete

In Italia risanare i conti pubblici e allo stesso tempo far ripartire la crescita, insomma diventare un po' più “tedeschi”, si può. Ma per farlo occorre tempo, perlomeno lo stesso tempo che ha impiegato Berlino per riformare la sua economia e che però la cancelliera Angela Merkel non sembra disposta a concederci

    In Italia risanare i conti pubblici e allo stesso tempo far ripartire la crescita, insomma diventare un po' più “tedeschi”, si può. Ma per farlo occorre tempo, perlomeno lo stesso tempo che ha impiegato Berlino per riformare la sua economia e che però la cancelliera Angela Merkel non sembra disposta a concederci. E' questa l'opinione di un numero crescente di economisti ed analisti che s'interrogano sull'attacco speculativo che lambisce il nostro paese, dopo aver costretto l'Ue al salvataggio delle banche spagnole. Mario Monti avrà perso l'aura che lo circondava a novembre, come scrive il Wall Street Journal e come certifica da qualche settimana lo spread Btp-Bund, e Roma avrà pur sempre un debito pubblico da record, ma veramente l'Italia – con una drastica riforma delle pensioni alle spalle, con il pareggio di bilancio a portata di mano nel 2013, con le sue famiglie ben patrimonializzate e i suoi istituti di credito che non hanno bolle immobiliari o finanziarie da smaltire, etc. – si merita tutta questa sfiducia da parte degli investitori?

    Secondo uno studio appena pubblicato dagli economisti del colosso finanziario olandese ING, intitolato “Strade per la sopravvivenza”, il rigore e le riforme voluti dalla Germania non sono un male in sé ma faranno molti danni se continueremo a essere applicati come stiamo facendo oggi. Per diventare “tedeschi” infatti servono anni, oltre che buon governo e buona volontà. “Le principali ricerche dell'Ocse (organizzazione economica dei paesi industrializzati del pianeta, ndr) sulle riforme del mercato del lavoro e su quelle tese ad aumentare la produttività suggeriscono che l'impatto potenziale di tali riforme potrebbe essere enorme nei paesi periferici dell'Eurozona”, scrive Mark Cliffe ai suoi clienti. In questo modo il pil greco aumenterebbe per esempio del 15 per cento in 10 anni, e più o meno della stessa misura in Italia, Spagna e Portogallo. Insomma, su questo punto hanno ragione Angela Merkel e Mario Monti: la crescita si ottiene non tanto stimolando la domanda con la spesa pubblica, quanto aumentando la produttività e ricorrendo alle ricette della “supply-side economics”. Però la stessa Ocse, sottolineano gli economisti di ING, ammette che gli effetti delle riforme strutturali sono meno prevedibili nel breve termine. “Infatti nelle attuali circostanze, con una disoccupazione elevata e il settore privato riluttante a investire, la riallocazione di risorse che le riforme sul lato dell'offerta dovrebbero attivare è difficile che si realizzi senza problemi. Alcune riforme, come i tagli ai salari o la riduzione dei sussidi di disoccupazione, comportano necessariamente una perdita di reddito disponibile che si trasformerà rapidamente in una riduzione dei consumi. La ripresa dell'occupazione e degli investimenti potrebbero invece richiedere più tempo”.

    Detto altrimenti: ridurre indebitamento esterno e deficit delle partite correnti (quindi di merci e servizi) attraverso una “svalutazione interna” e con politiche monetarie e fiscali rigide può frenare la crescita per anni; anni di disoccupazione, di bassa crescita, di rendimenti sui titoli che tornano a salire, di deficit che tornano ad aumentare. Una prospettiva che fa tremare le gambe agli investitori internazionali, anche quando si trovano davanti a un paese sostanzialmente solido (seppure estremamente appesantito) come è oggi l'Italia. Il paradosso, secondo Cliffe, è che proprio la Germania dovrebbe avere ben presente tutto questo: “Le riforme tedesche del mercato del lavoro alla metà degli anni 2000 sono una buona illustrazione del loro impatto positivo, ma ritardato, sull'economia. Le necessità di aggiustamento erano minori rispetto a quelle attuali dei paesi periferici, però le riforme ci impiegarono almeno tre anni per mostrare i loro risultati positivi”.

    Il ragionamento è analogo a quello svolto dalla banca d'affari francese Natixis in un altro report riservato. Oggi ai paesi come l'Italia “viene richiesto ‘un aggiustamento reale'”, ovvero: “Correggere la produttività, la specializzazione produttiva, il costo del lavoro, in modo da ridurre il deficit di competitività e far scomparire il deficit delle partite correnti. Il tutto senza utilizzare il tasso di cambio (ovvero senza poter svalutare, ndr). E visto che questi paesi sono in crisi e non riescono a finanziarsi sul mercato, occorre che questo aggiustamento sia quanto più rapido possibile”. Peccato, sostengono gli analisti di Natixis, che “questo aggiustamento reale, per di più da realizzare contemporaneamente in numerosi paesi e sotto lo schiaffo dei mercati, sia impossibile”. I prezzi infatti sono “rigidi” e non scendono alla stessa velocità dei salari: “Quindi la competitività-prezzo e il commercio con l'estero migliorano di poco, mentre i salari reali si abbassano e questo trascina in giù la domanda e il pil, proprio come sta avvenendo oggi in Spagna, Italia, Grecia e Portogallo”. Eppure, replicano da Berlino, la Germania il suo “aggiustamento reale” l'ha portato a termine con successo. Risposta di Natixis: certo, “la diminuzione dei salari dal 2001 al 2007 ha consentito a partire dal 2006 una ripresa degli investimenti, dell'occupazione, la formazione di surplus commerciali significativi. Ma non bisogna dimenticare il costo reale dell'aggiustamento realizzato in Germania, visto che la disoccupazione iniziò a diminuire solo nel 2005. Non solo: l'aggiustamento nel complesso durò 6 anni, dal 2000 al 2006, nonostante condizioni molto favorevoli”. Quando il socialdemocratico Gerhard Schröder fu cancelliere (dal 1998 al 2005), infatti, i tassi d'interesse sul debito erano bassi ovunque, “a differenza di quanto accade oggi negli altri paesi dell'Eurozona”, e inoltre Berlino poté giovarsi dell'effetto-traino di tutte le altre economie vicine allora in crescita. Conclusione: se perfino i “primi della classe” hanno avuto bisogno di tempo, oltre che di sacrifici, per portare a termine le loro riforme, è irrealistico chiedere all'Italia o alla Spagna di compiere lo stesso processo in meno tempo e in condizioni esterne decisamente avverse. Continuare con una “prospettiva non cooperativa”, ovvero senza una rete di sostegno per Roma e Madrid fatta di investimenti europei e una Bce più espansiva, la deriva “potrebbe essere drammatica”, conclude il report: “O questi paesi ce la fanno, o l'euro esplode”. 

    Twitter @marcovaleriolp