Così per gli Stati Uniti il protezionismo diventa “strategico”

Marco Valerio Lo Prete

I colossi cinesi Huawei e Zte non potranno accedere al mercato americano per ragioni di sicurezza. L'attendismo europeo

    No pasaran. Il Congresso americano ieri ha parlato, e ora le due più grandi multinazionali cinesi nel settore delle telecomunicazioni faranno meglio a tenersi alla larga dal mercato interno statunitense. Ragioni di sicurezza nazionale lo esigono, è in estrema sintesi il pensiero della Permanent select committee on Intelligence del Congresso, motivato e dettagliato in un rapporto di oltre 50 pagine, frutto di un processo investigativo avviato nel novembre 2011. Perché scomodarsi tanto? Basti dire che in ballo c'è l'ingresso nei confini statunitensi di Huawei Technologies, colosso cinese che, dopo la svedese Ericsson, è il secondo maggiore operatore globale nel settore delle infrastrutture per la telecomunicazione.

    Far transitare dati sensibili “made in Usa” (dai brevetti scientifici ai piani militari, alla regolazione delle infrastrutture energetiche) attraverso cavi e reti “made in China”, che un domani potrebbero magicamente aprirsi agli occhi curiosi di Pechino – è il ragionamento dei parlamentari americani –, non è nell'interesse di Washington. Soprattutto dopo che la commissione parlamentare incaricata di investigare sostiene di essere “insoddisfatta dal livello di cooperazione e franchezza dimostrato dalle due società”. Huawei e Zte, nonostante tutte le interviste e le audizioni concesse, nonostante i documenti forniti, non sono riuscite a convincere il legislatore americano della loro autonomia rispetto al Partito comunista cinese. Non è un aspetto marginale, visto che Huawei – che tra l'altro ha 700 dipendenti in Italia – è stata fondata da Ren Zhengfei, “che molti ritengono fosse direttore della Information Engineering Academy dell'Esercito di liberazione popolare (Pla, l'esercito cinese, ndr), un'organizzazione affiliata al 3Pla, divisione dell'intelligence cinese, e che i suoi legami con l'esercito proseguono”, si legge nel rapporto. Non solo: Huawei, risulta anche da confessioni di ex dipendenti, avrebbe compiuto piccole ma significative infrazioni della legge americana, e soprattutto godrebbe del sostegno finanziario del governo cinese. L'esecutivo americano – è il consiglio della commissione parlamentare – eviti di approvigionarsi da Huawei e Zte e blocchi ogni tentativo di acquisto o fusione di asset strategici che coinvolge le due società. Gli operatori privati sono incoraggiati a ricercare invece partner alternativi.

    “Il dibattito sulla trasparenza della proprietà di questi gruppi cinesi è irrilevante. Non ci si può infatti nascondere che a comandare, in questi casi, sia sempre il Partito”, dice al Foglio Alberto Forchielli, professore di Economia presso l'Università di Bologna, e fondatore di Mandarin Capital Partners, uno dei maggiori fondi di private equity focalizzato sull'asse Italia-Cina. Forchielli non esclude che il Congresso possa aver deciso di politicizzare la sua decisione, ma poi, per dare un'idea del clima teso che regna in un settore come quello delle telecomunicazioni aggiunge: “In Europa la Commissione europea si chiede se società come Huawei e Zte utilizzino finanziamenti illegali dello stato, praticando una sorta di dumping commerciale nel continente. Eppure Bruxelles ha dovuto avviare un'indagine senza che vi fosse nessuna denuncia da parte degli operatori europei. Questi infatti temono troppo le possibili ritorsioni di Pechino”. Il problema, conclude Forchielli, è che i paesi europei a differenza degli Stati Uniti non hanno “la capacità politica e gli strumenti idonei” a vagliare eventuali pericoli per la loro sicurezza strategica.

    Intanto la risposta dell'ex Impero celeste agli Stati Uniti non si è fatta attendere: Washington dovrebbe “abbandonare i pregiudizi” verso le imprese cinesi, ha detto ieri il ministero degli Esteri. In Huawei c'è chi parla, in maniera molto diplomatica, di “indagine un po' strumentale”, tesa a limitare la concorrenza estera. Huawei, con 1.800 dipendenti negli Stati Uniti, muove un giro d'affari di circa 30 miliardi di dollari nel paese.