Il pastrocchio Confindustria-Cgil sulla produttività

Marco Valerio Lo Prete

    Sabato scorso, in esclusiva sul Foglio, abbiamo raccontato l'annacquamento delle norme Monti-Fornero sulla produttività. Annacquamento avvenuto in una fase di incertezza politica (governo Monti uscente) e perlopiù dietro le quinte, come certificano i documenti interni della Cgil. Incentivi per 1,6 miliardi di euro (di soldi del contribuente) che verranno elargiti per la detassazione dei salari di produttività con condizioni molto meno impegnative di quelle previste in origine. Insomma, una misura per la crescita che non avrà effetto.

    Un'ordinaria storia di corporativismo italiano, ai tempi della crisi economica più grave che il mondo occidentale abbia attraversato dagli anni Trenta a oggi, è di per sé un fatto straordinario. L'ennesimo episodio di concertazione camuffata tra burocrazie industriali e sindacali, con l'obiettivo principale di attingere ai fondi pubblici senza accettare di modificare nulla del modo di essere imprenditori o lavoratori, potrebbe apparire incomprensibile a chiunque senta ripetere continuamente che fare “sacrifici” è necessario. Incomprensibile per chi magari si sia convinto che un'Italia in stagnazione da 25 anni non può essere soltanto colpa di Lehman Brothers e dintorni. Tuttavia, per quanto straordinaria e incomprensibile possa sembrare, la storia della detassazione del salario di produttività, approvata dal governo Monti nel dicembre 2012, è l'ulteriore riproposizione dello schema “tutto cambia affinché nulla cambi”. A costo anche di tenerci rassegnazione e stagnazione in abbondanza. Protagonisti della vicenda – per come l'ha ricostruita il Foglio – sono la Confindustria e la Cgil, con la compartecipazione dei sindacati detti “riformisti” (Cisl e Uil) e qualche omissione del governo dei tecnici appena archiviato. (Leggi qui tutta l'inchiesta)

    Il commento del direttore del Foglio, Giuliano Ferrara:

    "Una volgare ammuina (quello che sta dietro va davanti, quello che sta in alto va in basso, e tutti hanno da muoversi per restare impassibilmente fermi). L'accrocco concertativo, contraddetto dal modo di lavorare ormai diffuso in tante imprese e in tanti sindacati nelle aziende, è figlio di una mentalità della stagnazione e della lagna, tipicamente italiana, che porterà Marchionne definitivamente a Detroit e i tedeschi a comprarci a buon prezzo come si fa con un paese lacero e contuso". (Leggi qui tutto l'editoriale dell'Elefantino)

    Michele Tiraboschi, ordinario di Diritto del Lavoro all'università di Modena e Reggio Emilia, allievo di Marco Biagi, ha così commentato:

    “E' un film già visto. L'accordo del 24 aprile ricalca quelle intese sulla detassazione degli anni passati che avevano finito con lo svuotare i precetti legali da cui erano partite”, osserva il professore. Si spieghi meglio: “La misura di detassazione del salario di produttività – dice Tiraboschi – risale al 2008 e, nel suo impianto originario, era affidata alla contrattazione individuale. Solo successivamente, per sostenere il nuovo modello contrattuale siglato a gennaio 2009 tra governo, Confindustria, Cisl e Uil, ma non Cgil, si decise di vincolarne l'applicazione all'attivazione di accordi collettivi di secondo livello di tipo territoriale o aziendale. Anche allora poi, le parti sociali, per recuperare la Cgil, alla fine sottoscrissero nel marzo 2012 un accordo che svuotava la legge consentendo di fatto di detassare voci previste dalla contrattazione collettiva nazionale. In altre parole: bastava richiamare pedissequamente dette voci nazionali in un accordo territoriale di facciata per ottenere la copertura”. Altro che contrattazione aziendale per avvicinarsi alle esigenze produttive della specifica azienda. “L'accordo attuale, e la relativa circolare ‘pilotata' dalle parti sociali, si muove esattamente in questa direzione". (Leggi qui tutta l'intervista a Michele Tiraboschi)

    Dice infine oggi al Foglio Pietro Ichino, giuslavorista (ex Pd ed ex Cgil, oggi senatore di Scelta civica:

    "Questa vicenda dimostra ancora una volta che il nostro sistema di relazioni industriali è, e rimane, prevalentemente diffidente delle grandi innovazioni soprattutto sul piano dell'organizzazione del lavoro e della struttura delle retribuzioni. E' ovvio – conclude Ichino – che in questo modo la produttività ne risulti frenata, e che ne risulti frenata a sua volta la crescita complessiva del paese”.(Leggi qui tutta l'intervista a Pietro Ichino)

    Sulle difficoltà che sta attraversando Confindustria, leggi anche:
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