Quando la Fiom voleva l'articolo 19 dello Statuto

Marco Valerio Lo Prete

    Oggi la Consulta ha dato ragione alla Fiom-Cgil, contro la Fiat, ritenendo illegittimo l'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori. Ma chi l'aveva voluto quell'articolo 19? Sopresa... Lo abbiamo scritto sul Foglio del febbraio 2011.

    Sergio Marchionne probabilmente non li ricorda. Nel 1995 era ancora un manager in carriera tra il Canada e la Svizzera e difficilmente si sarà interessato ai dodici referendum popolari che si svolsero in Italia. La nascita della contrattazione “all'americana” in Fiat però ha un suo paradossale punto d'origine proprio nella consultazione popolare di 16 anni fa. Se oggi Marchionne può escludere Fiom e riconoscere il diritto di rappresentanza alle sole sigle sindacali che abbiano sottoscritto gli accordi aziendali a Mirafiori, lo deve proprio a quel “sì” che fu decretato da una larga maggioranza di italiani (62,1 per cento
    dei votanti di allora).

    Il paradosso è che i referendum sulla riforma dello Statuto dei lavoratori furono promossi da un composito raggruppamento di estrema sinistra
    , che andava da Rifondazione comunista ai Cobas, passando anche per una parte della Fiom e della Cgil. L'articolo 19 della legge 300 riconosceva, fino a quel momento, la possibilità di rappresentare i lavoratori solo ai sindacati “maggiormente rappresentativi” o a quelli firmatari di accordi collettivi. La vittoria del “sì”, abrogando il primo passaggio, tolse a Cgil, Cisl e Uil il diritto di essere i principali interlocutori delle varie aziende aprendo le porte delle relazioni industriali a tutti i sindacati, purché però firmatari di accordi. “Il nostro era un movimento, nato dopo l'abrogazione della scala mobile, che riuniva moltissimi consigli di fabbrica e aveva come obiettivo una maggiore democrazia sindacale”, dice al Foglio Paolo Cagna Ninchi, ex Cgil, all'epoca presidente del comitato promotore. Proprio l'abrogazione del riferimento ai sindacati nazionali ha fornito l'arma all'amministratore delegato Fiat per escludere Fiom. “C'era un secondo quesito che chiedeva di eliminare anche il richiamo alle firme sui con tratti. Purtroppo in quel caso i sì si fermarono al 49,9 per cento”, precisa Cagna Ninchi.

    I referendum furono sostenuti dai Club Pannella, “anche per l'immobilismo cofferatiano, ma, contrariamente a quanto detto da alcuni commentatori, non fummo noi i promotori né ci attivammo per raccogliere le firme”, ricorda l'attuale tesoriere di Radicali italiani, Michele De Lucia. Sergio Cofferati, segretario Cgil all'epoca del referendum, oggi eurodeputato del Pd vicino alle posizioni della Fiom al Foglio dice: “Marchionne non ha avuto bisogno dell'abrogazione del '95 per esiliare Fiom. Se ha potuto portare avanti questa strategia lo si deve unicamente a due ragioni: la disponibilità miope degli altri sindacati, e la mancanza nel settore privato di una legge attuativa sulla rappresentanza sindacale per verificare realmente chi gode della fiducia dei lavoratori”.

    Per il senatore pd Pietro Ichino il paradosso invece c'è eccome, e lo si deve all'insipienza tecnica dei promotori di quella consultazione: "I miei appelli all'epoca purtroppo non vennero ascoltati”. Per il giuslavorista il merito di Marchionne sta nell'aver portato alla luce l'inefficienza delle relazioni industriali italiane. “Uscendo da Confindustria – spiega Ichino – l'ad Fiat si è sottratto al protocollo Ciampi-Giugni del 1993 tra le parti sociali. Uno schema che avrebbe permesso a Fiom di restare in gioco poiché stabiliva un terzo di delegati alle sigle firmatarie del protocollo e gli altri due terzi di delegati con elezioni dirette tra i lavoratori”. “Per uscire da questo impasse – conclude Ichino – ho presentato un progetto di legge per riconoscere la rappresentanza sindacale anche alle sigle minoritarie che non dovessero raggiungere un accordo con l'azienda, attribuendo invece alla maggioranza il potere di firmare accordi vincolanti per tutti i lavoratori”.

    di Marco Valerio Lo Prete e Giuseppe Marchini