La spesa pubblica è un tic. Consigli a Cottarelli (dal suo predecessore al Fmi)

Marco Valerio Lo Prete

    Il ministro dell'Economia, Fabrizio Saccomanni, ostenta ottimismo sulla capacità dell'esecutivo di riformare uno dei cardini della Costituzione materiale italiana, cioè la spesa pubblica. Intervistato domenica dalla Stampa, ha detto addirittura di non ritenere “ambiziosissimo” l'obiettivo della spending review governativa, cioè la limatura di 32 miliardi di uscite statali in 3 anni. Tuttavia la missione per cui il governo ha nominato il commissario Carlo Cottarelli, considerati pure i risultati dei predecessori, potrebbe essere più difficile del previsto. E' quanto emerge anche dalla lettura dell'ultimo libro dell'economista Vito Tanzi, “Dollars, Euros and Debt”, appena uscito per la casa editrice inglese Palgrave Macmillan. Tanzi di spesa pubblica se ne intende. Dal 1981 al 2000, è stato direttore del Fiscal affairs department del Fondo monetario internazionale (Fmi); un ruolo chiave nell'organizzazione con sede a Washington, a lungo appannaggio di studiosi di origine italiana, e ricoperto dal 2008 al 2013 proprio dall'attuale commissario alla spending review Cottarelli.

    Nel suo libro, l'economista – che dal 2001 al 2003 si cimentò da sottosegretario in un'esperienza di governo, presto abbandonata con delusione – non compila un ricettario dettagliato. Fornisce piuttosto una personale lettura della crisi che ha investito le economie occidentali negli ultimi anni, lettura tutt'altro che popolare nell'establishment italiano: “I problemi che oggi affliggono vari paesi, e non solo quelli membri dell'Unione economica e monetaria (Ume) – scrive Tanzi – hanno meno a che fare con l'architettura originaria dell'Ume e con il ruolo dell'euro, e dipendono molto di più dalla sostenibilità del livello della spesa pubblica in molti di questi paesi, un livello di spesa che è diventato difficile da mantenere soprattutto in un mondo in cui il capitale finanziario si può muovere liberamente da paese a paese”. Anche i difetti originari della costruzione dell'euro sono da legare perlopiù a questa tendenza di eccessivo appesantimento del fardello pubblico di cui risente quasi tutto il mondo sviluppato e che Tanzi denunciò già all'inizio degli anni 2000 sulla stampa anglosassone. Primo, il rispetto delle regole di Maastricht non fu affidato ai parlamenti nazionali ma alla Commissione Ue; secondo, il tetto al deficit e al debito non limitava la quantità di spesa pubblica e tasse rispetto al pil che uno stato poteva introdurre; terzo, il calo dei tassi d'interesse successivo all'introduzione dell'euro ha garantito uno spazio di manovra fiscale che non è stato utilizzato per abbattere il debito.

    Sarebbe stato più ragionevole applicare “la legge di Cicerone”, così come è stata attribuita all'oratore romano del I secolo a.C.: “Il bilancio nazionale dev'essere in equilibrio, il debito pubblico dev'essere ridotto, l'arroganza delle autorità pubbliche dev'essere moderata e controllata. Le persone devono imparare di nuovo a lavorare, invece che vivere grazie all'assistenza pubblica”. La mole eccessiva di spesa statale, che in Italia supera il 50 per cento del pil, distorce anche il punto di vista di chi oggi auspica un ritorno al livello di “crescita potenziale” e fa riferimento in realtà a un pil “drogato” per molto tempo da laute uscite e scarse entrate pubbliche. Al punto che Tanzi, scettico sul “livello genuino di crescita” dei decenni scorsi, concorda di fatto con quanti parlano di una “stagnazione secolare”, figlia di risparmi in eccesso che fanno fatica a trovare un impiego produttivo. Rispetto però a personalità neokeynesiane, come l'ex segretario al Tesoro americano Larry Summers o il columnist del Financial Times Martin Wolf, l'economista di origini pugliesi sostiene che è soprattutto “l'incertezza sulle prospettive future” a frenare gli investitori, in particolare l'eventualità che gli stati possano incontrare difficoltà crescenti a ripagare i propri debiti.

    Se la crisi finanziaria ha soltanto accelerato un'inevitabile crisi fiscale, sostiene Tanzi, allora sarà bene che gli stati si decidano ad affrontare i problemi all'interno dei loro confini. Inutile – dice riferendosi a tesi pur ponderate come quelle dell'analista Mario Seminerio (alias Phastidio.net) – tirare la giacchetta alla Germania, chiedendole di limitare il suo avanzo delle partite correnti e di importare di più dai paesi mediterranei: intanto perché non esiste una relazione fissa tra aumento dei prezzi dei beni e riduzione dell'avanzo commerciale, visto che ad alimentare la competitività tedesca sono state soprattutto le riforme strutturali; poi perché Berlino difficilmente presterà ascolto, non volendosi indebolire rispetto alla concorrenza mondiale. Tanzi critica pure l'idea che la Banca centrale, divenendo prestatore di ultima istanza degli stati, e quindi acquistando i titoli del debito in eccesso, possa fornire una facile via d'uscita: negli Stati Uniti, la Fed starebbe soltanto imbellettando i conti pubblici del paese, abbassando il costo del debito, ma creando le premesse di una crisi fiscale futura, magari abbinata a un'elevata inflazione. Un po' illusorio, infine, l'auspicio di trasformare l'Ue sul modello degli Stati Uniti: nemmeno loro sono formalmente una “transfer union”, in cui il governo federale è tenuto a trasferire risorse dagli stati ricchi a quelli più poveri. In definitiva resta soltanto la via – lunga e impervia, ma comunque fattibile come dimostrano le ricerche di Alberto Alesina e altri – del rigore e della razionalizzazione del welfare state.

    Sono tesi, quelle di Tanzi, che un tempo si sarebbero dette “ortodosse”, e che oggi appaiono minoritarie nel nostro dibattito pubblico. Eppure, attingendo sapientemente alle intuizioni della Public choice americana e ai classici della finanza pubblica italiana, l'ex dirigente del Fmi formula un'utile “legge fondamentale sulla crescita della spesa pubblica”: quest'ultima “tende ad aumentare continuamente e spontaneamente” perché attrae free rider tra i cittadini, ingolosisce potenziali fornitori dei servizi, sviluppa inefficienze e spinge lo stato a perseguire un numero crescente di obiettivi. Invertire questa tendenza è possibile, conclude Tanzi, ma ciò presuppone una battaglia culturale da parte della classe dirigente occidentale. Non basterà qualche mero accorgimento contabile. Cottarelli è avvertito.

    (dal Foglio di oggi, pagina 2)