Europa modello Lehman Brothers? Se ne parla al Fmi

Marco Valerio Lo Prete

    Oggi, alle 12, Richard Gitlin entrerà nella sede di Washington del Fondo monetario internazionale (Fmi) per discutere il suo “Progetto per un Forum sul debito sovrano”. E il curriculum vitae di Gitlin – già noto alla maggior parte dei membri del Consiglio d'amministrazione e del Consiglio direttivo dell'organizzazione internazionale che staranno ad ascoltarlo – parlerà ancora prima di lui: cofondatore dell'American Bankruptcy Institute nel 1982 e quindi presidente dello stesso, è stato un protagonista del processo di liquidazione di Lehman Brothers. La banca d'affari statunitense che avviò le procedure per il fallimento il 15 settembre del 2008, data cui si fa risalire per convenzione l'inizio della Grande recessione, aveva asset per 600 miliardi di dollari, a sufficienza per farne il più grosso fallimento della storia americana. E a sufficienza per trasformare Gitlin in uno dei più rinomati avvocati liquidatori d'America. Adesso però Gitlin ha cominciato a ragionare pure di fallimento degli stati sovrani.

    Sarà per la ripresa lenta dell'Europa, per il risanamento fiscale meno rapido del previsto o per lo spettro della deflazione che mette nei guai i paesi debitori, fatto sta che al Fmi il tema della “ristrutturazione del debito sovrano”, cioè delle perdite da infliggere ai creditori degli stati nazionali come extrema ratio, non è più tabù. Nemmeno se riguarda “i paesi avanzati”. Così Gitlin, dal 2013 senior fellow del Cigi, si presenterà oggi con i suoi colleghi del think tank canadese e il direttore del programma economico di Cigi Domenico Lombardi (columnist di questo giornale), invitato dal Fmi per discutere la sua idea di un “Forum per il debito sovrano” (Fds). Si tratterebbe di dare vita a un'organizzazione indipendente e no profit, aperta a stati sovrani e creditori privati, dove questi ultimi possano confrontarsi su base regolare, affiancati da uno staff di esperti, “riducendo i costi ex ante associati alle emergenze finanziarie causate dal debito”. Perché il paradosso, sostiene Gilt, è che gli stati sovrani “tendono a ristrutturare il debito ‘troppe poche volte e troppo tardi'”: finora cioè – statisticamente e storicamente parlando – i paesi hanno fatto di tutto per onorare i debiti con i detentori dei loro bond, spesso però fino al punto di incamminarsi su un sentiero di finanza pubblica insostenibile. Salvo poi, quando onorare i debiti diventava d'improvviso impossibile, causare choc maggiori sui mercati. Un Forum sul debito consentirebbe di eliminare “il problema del grilletto”, cioè il timore per il singolo stato di cominciare anche solo ad affrontare il problema, causando un contagio finanziario; un tale Forum consentirebbe poi di raggiungere standard teorici e procedurali di alto livello e più affidabili; infine esso fornirebbe “gli incentivi a trattare i problemi del debito in maniera proattiva”, evitando che anche mere crisi di liquidità si trascinino fino a diventare irrimediabili crisi di solvibilità degli stati. La ricetta di Gitlin, che il Cigi presenterà anche a Roma il prossimo 28 gennaio con Lorenzo Bini Smaghi (ex Banca centrale europea) e Stefano Micossi (direttore generale di Assonime), non è soltanto teorica: è tagliata su misura per i paesi occidentali, visto che “i costi” di una crisi da debito in Europa “potrebbero essere maggiori di quelli affrontati nei paesi emergenti, perché i mercati finanziari hanno concesso ai paesi industrializzati di indebitarsi molto più che quelli emergenti”. Nel 2013, nell'Eurozona, il rapporto debito pubblico/pil è arrivato infatti al 95,5 per cento, in Italia è addirittura al 130.

    Un trattamento radicale ma ponderato dei debiti pubblici lo ipotizza anche Ashoka Mody, già capo missione del Fmi nell'Irlanda post collasso bancario. In un saggio pubblicato su Voxeu.org, l'economista sfida il luogo comune per cui l'accordo di Deauville tra Merkel e Sarkozy, quello dell'ottobre 2010 in cui si ammise che i detentori di bond greci avrebbero dovuto accettare perdite, avrebbe causato l'impennata dello spread. Piuttosto, numeri alla mano, Mody sostiene che fu l'incertezza nel rapporto tra creditori pubblici e privati a far vacillare i mercati. Mody critica infatti gli economisti à la Carlo Cottarelli (ex Fmi, oggi commissario alla spending review del governo Letta) che giudicarono “non necessarie e non desiderabili” ristrutturazioni del debito nei paesi occidentali. Una visione più flessibile, invece, si fa strada a Washington, come dimostra anche un paper pubblicato dal Fmi a firma di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, i quali invitano “i politici dei paesi ad alto reddito” a non pensare di “essere completamente diversi dai paesi emergenti” rispetto al problema del debito. Se sia una buona notizia, questo è ancora da capire.