Giona nella balena, o il senso non vano del martirio
Poi dissero l’uno all’altro: ‘Venite, tiriamo a sorte, per sapere a cagione di chi ci capita questa disgrazia’. Tirarono a sorte, e la sorte cadde su Giona”. E lui rispose loro: “Sono Ebreo, e temo l’Eterno, l’Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra ferma”. E quelli gli dissero: “Che ti dobbiam fare perché il mare si calmi per noi?”. E lui: “Pigliatemi e gettatemi in mare, e il mare si calmerà per voi”. Non hanno tirato a sorte, hanno tirato cazzotti. E’ significativo che nessuno, nemmeno Avvenire, si sia ricordato di Giona. Dire che i cristiani uccisi non fanno notizia, che la profondità della guerra di religione è peggio della profondità del mare, o fare surf sulle guerre dei poveri sono cose buone, o di pessimo gusto. Fare del martirio dei cristiani un caso di isteria cognitiva, come fossero canzoni dei Pooh (“Chi fermerà il martirio? / l’aria diventa elettrica”) è vano.
“Giona nella balena / felice fu”, è una canzoncina che noi cristiani insegniamo ai nostri bambini. Non perché siamo imbecilli, ma perché Giona è prefigurazione della resurrezione di Cristo. Anche nel nostro occidente in cui nessuno sa più nemmeno di che parli, quell’antico mito, e se Gesù è resuscitato dai morti è una domanda retorica che interessa al massimo Emmanuel Carrére. C’è il sangue dei martiri. Ma se c’è un motivo sensato per essere martiri invece che carnefici, e un obbligo di difendere i martiri, è perché dopo tre giorni la Balena ha risputato Giona su una spiaggia, per andare a convertire Ninive. Non è stato vano.
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