La vergogna di quei deportati in catene del posto fisso
In miniera. In galera. Nelle stive dei gommoni. Con gli schiavettoni nei galeoni come i negri di Amistad. A calci in culo fino a Belluno. Gasati come siriani a Budapest, marchiati come profughi a Breclav. L’altra notte. E verrebbe da scrivere “alla luce delle fotoelettriche”, come nelle cronache dei disastri d’antan. Se questa è l’Italia, se questa è #labuonascuola. Se questo è un precario. Sedicimila precari che nel cuore della notte vengono assunti a centinaia di chilometri da casa, quando scatta l’ora X della “famigerata fase due”. Una retata, non un’assunzione a titolo definitivo alle dipendenze della Pubblica istruzione. Perché di questo poi si tratta. Un lavoro fisso nella scuola. Dopo tanti anni. Magari per tre anni in trasferta, ma a chi non è mai capitato? E invece: “A 55 anni mi mandano in provincia di Modena – (nelle paludi della Lousiana?) – come faccio a lasciare solo mio marito?”.
Un altro: “Mi tremavano le gambe… mi mandano a Roma. Dopo 17 anni di precariato. Domani dovrò dire a mio figlio che il prossimo anno dovrò partire”. Già, tra una anno. Perché poi si scopre che questi, come molti altri dei settemila assunti fuori regione, dovranno prendere servizio il primo luglio 2016. Dieci mesi per organizzarsi. E non essendo stati rapiti dai negrieri, non essendo stati deportati come ergastolani, potevano anche dire no. Mobilità sociale nel ventunesimo secolo, si dice.
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