La sorpresa di trovarsi d'accordo con Dino Boffo
In tempi in cui non riesco a essere d’accordo nemmeno con mons. Pompili, che fu portavoce della Cei negli anni bui delle “piazze piene e chiese vuote”, scopro con felice sorpresa di trovarmi d’accordo con Dino Boffo, che in quel tempo guidò con ferrea mano di velluto i media della chiesa italiana in molte battaglie non negoziabili, ma non proprio tutte irrinunciabili. Uomo riservato, ma che nella vita ci “mette la faccia”, era uscito vincitore da un’indecente campagna ad personam. Però immalinconito, e ancor più riservato. Ora, non so se gli ridonerà il buonumore la decisione di partecipare, nella malinconica Matera, a una “Festa per il No” in compagnia di Gaetano Quagliariello, Carlo Giovanardi e di una pletora di politici da far malinconia.
Però sono d’accordo con lui, quando risponde al Corriere che il suo è “un no al semplice quesito”, mica l’arruolamento in una guerra per bande, “perché il combinato disposto di riforma e legge elettorale presenta una connotazione autoritaria e rende decisivi partiti che nella società non hanno più il ruolo di un tempo. E perché è un errore passare da un regionalismo pur velleitario a un neocentralismo”. Su una cosa però Boffo ha probabilmente torto: quando dice che, vincesse il no, “servirà un patto tra gentiluomini perché si inizi a lavorare a una riforma migliore”. In Italia, di patti tra gentiluomini non se ne vedono dai tempi del Patto Gentiloni. E’ più facile che finisca a schifìo. Ma chi siamo noi per negoziare?
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