Il non addio alla vita di Marieke e l'eutanasia paralimpica
Sul momento la prima cosa che mi è venuta in mente è Cesare Pavese dopo avere vinto lo Strega: “Tornato da Roma, da un pezzo. A Roma, apoteosi. E con questo?”. Ma io sono un vecchio umanista, e subito dopo ho invece pensato che questa notizia che tutti i giornali davano, di questa atleta belga di 37 anni che si chiama Marieke Vervoort, che sabato ha vinto la medaglia d’argento nei 400 metri T52 ai Giochi Paralimpici di Rio e aveva già vinto due medaglie a Londra, e che aveva detto “vinco l’oro e poi mi uccido”, avesse invece a che fare con un mondo nuovo e per niente letterario. Un mondo transumano, dove il dolore e il vivere non hanno più il senso, o il muso, lungo della Langa. E che, oggi che le Olimpiadi sono diventate il mito eugenetico del corpo perfetto, forse anche le Paralimpiadi, che pure piacciono tanto anche a Papa Francesco, rischiano di diventare un mito eutanasico. Poiché nel mondo nuovo l’eutanasia non è che lo stadio perfetto e finale dell’eugenetica: la selezione del corpo con cui valga la pena continuare a vivere.
Poi però Marieke Vervoort ha fatto una conferenza stampa all’Aquatic Center e ha spiegato che s’è trattato di “un errore della stampa belga” (ha solo firmato le carte per quando la sua malattia degenerativa diverrà insopportabile), e che al momento il suo addio alla vita “è totalmente fuori questione”. Che “quel momento non è ancora arrivato, sono più impegnata con il buddismo e lo zen, mi sto ancora godendo ogni piccolo momento della mia vita”. Così alla fine ho pensato che la realtà delle cose, a volte, riesce a smentire le cattive interpretazioni dei giornali. E che deve essere un bel tipo, Marieke, a conoscerla.
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