Il normale silenzio del Menestrello e la banalità del bene
Quando nel 1986 Wole Soyinka vinse il Nobel, per alcuni giorni si scatenò il panico tra i colleghi, i giornalisti, gli addetti ai lavori (soprattutto italiani: a quell’epoca in Italia lo aveva pubblicato soltanto Jaca Book, non sapevano manco chi fosse) perché il grande poeta nigeriano risultava irreperibile. Si sparse voce che per l’ancestrale spavento da premio comminato fosse fuggito nella savana, o chissà dove. Non s’è mai capito, comunque per un po’ non se ne scovò traccia. E a quell’epoca internet non c’era. A nessuno venne in mente la versione più semplice: Soyinka era (è) un poeta. Poco gliene fregava (gliene frega) dei premi. Una cosa totalmente incomprensibile, nel mondo di mezzo di coloro che vivono sperando un giorno nel Nobel, che un collega non fosse lì, con l’orecchio alla cornetta o l’occhio al telex, in attesa della notizia.
Fa dunque piacere che quel genio di Jovanotti, festeggiando il Menestrello, abbia detto banalmente una cosa semplice e giusta, schivando il fronte del No e quello del Sì: è un Nobel alla poesia, ma io non c’entro, io sono un cantante pop. Ernesto Assante, bravo critico musicale di Repubblica, ieri su RepTv ha detto verità anche più banali, e dunque essenziali: è dagli anni 60 che Dylan non apre bocca in pubblico se non per cantare, e poi c’è sempre la mitica storia del suo falso incidente. Del resto non gli importa: è un poeta. A meno che, banalmente, Bob Dylan non sia anche un uomo normale, come Gigi di Maio: uno che le mail manco le legge.
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