La ciotola di riso (e i giornali) di padre Piero Gheddo, missionario
È morto ieri, in una casa di cura di Milano, a 88 anni. Non un terzomondista, neppure quando andava di moda ma uno che voleva bene al mondo perché voleva bene a Gesù, e dunque agli uomini
Padre Piero Gheddo era un sacerdote del Pontificio Istituto Missioni Estere, anche i lettori del Foglio avevano imparato a conoscerlo. È morto ieri, in una casa di cura di Milano, a 88 anni. Io l’ho incontrato forse tre volte, intervistato quattro. Non era un sant’uomo, era un prete santo. Terragno di natura, polemico quando serviva. Non un terzomondista, neppure quando andava di moda, non solo in chiesa, ma uno che voleva bene al mondo – terzo e quarto e persino al primo – perché voleva bene a Gesù, e dunque agli uomini. Così era difficile prenderlo in castagna, aveva due occhietti che ti fulminavano, e ne ha fulminati parecchi, nella sua carriera e in decine di libri: soprattutto le anime belle, à la Tiziano Terzani, per dire, e a quelli che scrivevano panzane sui giornali. Erano la sua altra passione, i giornali. Conoscere, far sapere. È stato un caso, piuttosto raro, di missionario giornalista. Senza confondere le cose. Aveva diretto per più di trent’anni la rivista del Pime, Mondo e Missione, facendone per molto tempo uno dei più attenti giornali di politica estera di lingua italiana. Aveva fondato AsiaNews e insegnato il mestiere (non solo l’etica del mestiere) a molti. Aveva i piedi per terra, e anche un po’ nell’acqua, perché era nato nel Vercellese, terra di risaie. Un giorno mi disse, più o meno, per spiegarmi un’altra volta una delle sue idee chiave – “gli aiuti producono sviluppo dove c’è un popolo preparato ad usarli, altrimenti producono corruzione” – che era come con il riso. Bisogna starci in mezzo, e insegnare a coltivarlo. Se no regali una ciotola, che non è un diritto maoista, ma non fai il bene di nessuno. Vangelo.