All'Ikea non buttano via le mamme. Lo dice il giudice
Il Tribunale di Milano ha respinto il ricorso della ex dipendente contro il licenziamento e “ha riconosciuto la gravità dei comportamenti tenuti”
Quando morì Ingvar Kamprad, ci furono buontemponi pronti a dire: “Non organizzate qualche giornata di promozione?”. Sarà per i sospetti che fosse nazista, sarà che montarsi i mobili da soli alla fine è una gran rottura, l’Ikea è uno dei quei brand che più sono indispensabili più è bello odiare. Quindi che bella occasione, qualche mese fa, quando al megastore di Corsico, Milano (un posto più cubista di uno scaffale Kallax) licenziarono una dipendente, madre separata con due figli di cui uno disabile. E i sindacati, i giornali, i dipendenti (87 su 1.407, per la precisione, quelli che scioperarono) poterono finalmente gridare allo scandalo e alla multinazionale senza cuore e scrupoli, che buttava per strada come un Billy usato una lavoratrice in difficoltà.
Invece niente. Il Tribunale di Milano, sezione Lavoro, ha respinto il ricorso della ex dipendente contro il licenziamento e “ha riconosciuto la gravità dei comportamenti tenuti”, confermando “la legittimità della decisione di Ikea”. Che lungi dall’essere una strega arcigna, era venuta incontro alla donna su mansioni e orari. Ma oltre un certo punto, diventa difficile mandare avanti la baracca: “La lavoratrice per sua stessa ammissione si è autodeterminata l’orario di lavoro senza alcun preavviso né comunicazione di sorta”, certifica il giudice. “Ikea dà un segnale a tutti: se non rispetti gli orari, te ne vai”, aveva tuonato il sindacato. Il che, a ben guardare, è un segnale nient’altro che normale. Kampard è morto, e la signora non se la passa bene, certo. Però, benvenuti nella realtà.