Lo stare leggeri e presenti di Vincino che mi intimidiva
Portava in sé un mistero diverso, che non potevi immaginare. Era una gara tra timidi, ma lui mi ha sempre messo in soggezione
Per lungo tempo, anzi è stato sempre, Vincino mi ha messo in soggezione. O, se avesse un senso l’espressione – ma a lui piacevano i paradossi, erano capriole del libero pensiero – direi che Vincino ha eccitato la mia timidezza. Sì, quell’uomo gentile, e il più affabile del mondo. Forse era una gara tra timidi, ma non ce lo siamo mai detto. O un dislivello di percezioni, dovuto anche all’altezza, che era iniziato in un’altra vita, in un altro giornale, come per tutti noi che lo avevamo conosciuto prima.
Quando non c’era il tablet, forse nemmeno il fax, e per recuperare i suoi disegni bisognava andare a casa sua, e lui li aveva fatti su ritagli di ritagli di carta. Pezzetti esplosi di un puzzle fantastico, ma continuo e senza strappi, la striscia di un disegno infinito, come i dipinti giapponesi. Era una lotta mai dichiarata tra timidi, forse anche un vibrare su lunghezze d’onda differenti. Ma a poco a poco, a furia di familiarità con quel suo tratto sottile, da antico incisore, con quelle sue battute a scarabocchio che non erano mai sentenze grevi e senza scampo, ma voli in altre dimensioni, ho capito che non era la timidezza, o la frequenza differente dei nostri modi di scherzare.
Era che Vincino portava in sé un mistero diverso, una nuvola di pensieri spinti più in là. E non li potevi immaginare. Intuivi che c’erano, ma saperli, no. Gli scivolavo accanto, senza afferrarlo, per dirlo con il verso di una canzone. O per dirlo con un’altra, era il fascino di “questo stare leggeri e presenti, cantando fuori dal coro”, che era il suo genio.