L'Italia in coma
L'ipocrisia di chi chiude la porta, si allontana dall'Europa e usa l'attentato di Strasburgo per screditare l'Ue
Quei fatti che accadono e tolgono valore alle parole. Le fanno diventare di troppo, o formali (può essere formale esprimere dolore per Antonio Megalizzi, il giornalista italiano ferito nell’attentato di martedì sera a Strasburgo, e che ora è in coma, con un proiettile conficcato alla base del cranio vicino al midollo spinale, non operabile? No che non può esserlo. Ma sono i fatti a decidere della formalità, non le parole). Un attentato è un attentato è un attentato, direbbe Gertrude Stein (no, certo che no: non lo direbbe. Tanto più se vicino alla morte, assieme agli altri tre, e quasi lontano dalla vita è un giovane uomo innocente). Ma sono appunto i fatti, questi che ci sono e ancora ci saranno, a rendere formali i commenti. E il sapere, il sentire, che se non fosse italiano, Antonio, già se ne titolerebbe di meno. Perché siamo italiani. I politici e i media italiani.
Titoliamo persino sul “terrore affogato nello spumante” al Parlamento europeo, tanto per non far mancar niente a chi quel palazzone vorrebbe tirar giù, in senso metaforico almeno. Poi forse c’è questo, se non rischia di diventare formale a sua volta: che in coma, a Strasburgo, c’è l’Italia. L’Italia che pensa di essere lontana dall’Europa. Che pensa che un confine, una lingua, siano la differenza tra quello che ci interessa o no. Che pensa che il terrorismo sia cosa degli altri. L’Italia del premier che va sorridente da Juncker, e si passa dal 2,4 al 2,04 (ma non erano quelli che non è una questione di decimali?). L’Italia che vorrebbe chiudere la porta, pensando che basti a schivare persino le pallottole, e se ne sta alla finestra. L’Italia che pensa che Strasburgo non siamo noi. L’Italia in coma.