Gustav Klimt, Morte e vita, 1910/1911, olio su tela

Non parliamo di Noa, parliamo di noi. Perché un fatto ci spaventa così

Maurizio Crippa

Una ragazza olandese di diciassette anni è "andata" ed è stata lasciata andare. Un fatto che cambia la nostra idea di amore e di prendersi cura

Non voglio parlare del dibattito sull’eutanasia, nemmeno delle notizie false o non verificate. Di fronte al fatto in sé, sono bagatelle per un’altra volta. Non voglio parlare nemmeno di Noa, ma di noi. (Spoiler: siete liberi di passare al prossimo articolo). Voglio parlare di noi – della community in cui siamo tutti giornalisti, politici, o quantomeno abbiamo tutti un account su cui dire la nostra; ma credo che la prima plurale riguardi in questo caso chiunque – e di come ci siamo messi di fronte a un accadimento. Una ragazza olandese di diciassette anni, che sono stati un monte di dolore, si lascia morire nella (libera) coscienza che non ci sia altra uscita. Il punto non è se aiutata, e neppure medicalmente aiutata, per legge o contro legge. Il punto è, semplicemente, questo: è andata, ed è stata lasciata andare. Anche dai genitori, da chi le era in qualche forma vicino. E’ grossa. Una cosa grossa. I nostri vecchi dicevano in dialetto ‘l’è spèssa”, ha uno spessore poco maneggiabile. Era la parola per le sciagure, il più delle volte l’unica che sapevano dire. L’è spèssa è per ciò che non ha misura né rimedio.

 

Delle implicazioni di questa vicenda si può dibattere come si vuole, ma un’altra volta. La cosa che penso io, ma è venuta su a poco a poco, di fronte ai commenti e a come la prendevano i giornali, è soltanto che è grossa e non ci si può nascondere dietro a un dito, sperando che indichi la faccia più rassicurante della luna. Lasciarsi morire per un’impossibilità a vivere in cui nessuno ha saputo, potuto, voluto penetrare, unito al lasciare andare attonito o devastato, certo non giudicabile da nessuno, non è un “caso limite”. Uno di quelli su cui solitamente si puntellano opposte strategie morali o politiche. No, è un punto di non ritorno, un’ultima desolata Thule del perché, e come, si vive. Riguarda noi, personalmente e collettivamente. E il motivo (o la giustificazione: a volte serve trovare delle giustificazioni) per cui siamo al mondo, e nel mondo. Che ci stiamo con un’attitudine rapace o felice, corsara o gentile, non importa. Ma ci siamo.

 

Invece mi ha colpito questo: un atteggiamento difensivo, il dito che si sforza di parare il colpo della luna. Bipartisan, se volete. Da un lato coloro che, anche sbagliando all’inizio, ma anche poi emendandosi, tendono a riportare questo macigno che ci si para davanti agli occhi alla prospettiva del dibattito eutanasico. E’ anche il punto di angolazione di questo giornale, non privo di elementi. Dall’altra parte – e non è che mi sembri più grave, non è la questione: ma mi sembra molto più rivelatore – i tanti che hanno insistito sul punto “non è stata eutanasia” e sul punto della fake news. Faccende interessanti pure queste, ma hanno parlato soltanto di quello. Evidentemente (o almeno è parso rivelatore a me) perché queste persone hanno anche loro capito che quella cosa è troppo grossa. Il primo è stato Marco Cappato: credo abbia intuito che legare le sue battaglie a una cosa spèssa come questa, non era il caso. Così molti hanno provato a riportare, a loro volta, la faccenda su un terreno più conosciuto, consono: l’offensiva oscurantista delle fake news, o la libertà di scelta.

 

Ma è possibile, è decente? La morte di Noa è un fatto che segna il punto di non ritorno di una doxa sociale in cui l’autonomia inviolabile della persona, il suo safe space psicologico e clinico e giuridico è tale che la stessa parola amore da lei usata – la parola di relazione che ha costruito la nostra antropologia almeno da duemila anni – non è più valida. Si “lascia andare”. E con la parola svapora non tanto la nozione di vita indisponibile, altra bagatella per un altro dibattito, ma qualsiasi prendersi cura capace, o che abbia la pretesa, di entrare in contatto con l’altro. Si dovrebbe avere il coraggio di dire che è accaduta una cosa grossa, che non riguarda una ragazza piena di dolore, o gli olandesi, o i preti o Cappato. Riguarda come e perché viviamo, o persino scriviamo. Troppo grossa per parlar d’altro.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"