Le tombe e la surreale impasse comunicativa del Vaticano
La Santa romana chiesa, più cerca di spiegare, di chiarire, più si avviluppa nell’occultamento, e quasi nell’occultismo. Il caso Orlandi spiegato da Buñuel
È vero che da quelle parti risorgere è nell’ordine delle cose reali, dunque ogni tanto qualche tomba può restare vuota, che sarà mai? Talvolta vuote persino due, sotto un angelo teutonico che indica un ineffabile mistero. Ma non essendo questo il caso, l’angelo racconta ben altra storia. La trama dell’Angelo sterminatore, gran Buñuel anno Domini 1962, è presto detta. O per meglio dire è indicibile, un mistero circolare, e proprio in questo s’addice alla faccenda. Una bella congrega di altolocati e altolocatesse si riunisce in palazzo e, dopo amena nottata, nessuno riesce più a oltrepassare la porta per uscire. Prigione senza sbarre ma senza via d’uscita. Nel film dura una notte, dentro le Mura leonine – con qualche sortita in flashback alla Magliana – stanno chiusi invece da trentasei anni: a raccontarsi sempre la stessa storia, a cercare sempre la stessa tomba, senza venirne a capo. Ma la cosa che più accomuna il caso metafisico-mediatico di Emanuela Orlandi al capolavoro del maestro del Surrealismo è l’incapacità comunicativa delle menti di Santa romana chiesa, che più cercano di spiegare, di chiarire, più si avviluppano nell’occultamento, e quasi nell’occultismo. E non ne escono fuori.
Se il fumo di Satana sia poi uscito dal Vaticano, dopo l’avvistamento di Paolo VI, non si è mai saputo. Ma che un angelo sterminatore in vena di castigare monsignori e cardinali stia lì, ultimo avvistamento nel Camposanto teutonico, col ditino all’ingiù, sopra alla tomba che avrebbe dovuto essere della principessa Sophia di Hohenlohe-Langenburg, in duplex con la principessa Carlotta Federica di Mecklemburgo, è palese. Avrebbe, perché scoperchiata la tomba, non si sono levati i morti. Per meglio dire, non si è trovata la Morta (o presunta) oscuro oggetto del desiderio di una caccia al tesoro lunga sette lustri. Per colmo della beffa, ennesima, non si sono trovate nemmeno le spoglie delle principesse in attesa delle trombe del Giudizio. Tantoché, nel circo Barnum, ha fatto ora di diritto la comparsa persino Ira von Fürstenberg, assai sconvolta dal mancato avvistamento: “Che storia pazzesca, devo chiamare subito mio figlio Hubertus, mi voglio informare, ora sono dal parrucchiere. Voglio chiedergli se siamo parenti della principessa Sophia, a lume di naso credo di sì”. E qui, più che di Buñuel, siamo dalle parti di Peter Sellers. La stessa scena quando scoperchiarono la tomba di Renatino De Pedis nella cripta di Sant’Apollinare e più di recente a Villa Giorgina, sotto un pavimento della Nunziatura apostolica. Cosicché, allo “sconcertante silenzio” che Pietro Orlandi, fratello, va denunciando da anni s’è sovrapposto uno sconcertante vuoto. Ma un motivo c’è, ed è un concorso di colpa. Ed è che, dopo il fumo di Satana, nei Sacri palazzi ha fatto ingresso un ectoplasma quasi peggiore: il fantasma della trasparenza.
Dopo i lunghi muri di gomma, la glasnost s’è impadronita della comunicazione. E fu subito caos. Certo, qui ormai le tombe le sventrano per cose più grosse, e la chiesa non sa più da che parte girarsi. Ma, nello specifico, sono anni, Bertone o Parolin, che si aprono le tombe, si annunciano verifiche. E spuntano vuoti che fomentano dubbi. “Siamo stati tutti sorpresi quando sono state scoperchiate le due tombe”, ha detto il buon Andrea Tornielli, commander in chief dei media papali. Ma ciò dimostra, dice, la partecipazione commossa della Santa Sede. Ma benedetti monsignori, fare un controllino prima? Arrivare già con le carte, tutte a posto, c’era stata una traslazione negli anni 60? Breve pausa dal surrealismo. Che il caso Orlandi sia una delle più brutte pagine della storia vaticana recente, è certo. Come sia andata, potrebbe dirlo Pasolini: tutti lo sanno, nessuno ha le prove. Che sia stato usato per infinito tempo come un sistema di ricatti e di segnali in codice, non ci vuole Dan Brown per capirlo. Che ormai sia diventato una farsa surreale che s’è mangiata, da un pezzo, la tragedia reale, è ciò che a questo punto dovrebbe contare. Dovrebbero pensarci anche dentro alle Mura leonine, e chiuderla lì, anziché avvilupparsi in una allegoria della trasparenza che provoca solo nuove domande da rotocalco. Ma, per tornare alle cose serie, la storia dell’Angelo sterminatore poi finisce così: l’unico modo per uscire è di rimettersi tutti nella posizione in cui si trovavano all’inizio (trentasei anni fa?). Ma usciti dal palazzo, entrano tutti in una chiesa. E quando provano a uscire…