Segre al Quirinale meglio no
Trasformare la senatrice in un “simbolo”, buttandola in partigianeria politica, in un paese in cui l’antisemitismo è invece bestia così trasversale, è un’idea criticabile
Reduce da una domenica pomeriggio televisiva e barricadera con gli operai dell’Ilva, ieri a Milano Lucia Annunziata ha cambiato tastiera ma non registro (la lotta dura senza paura è tornata di moda) e ha lanciato la proposta di candidare Liliana Segre alla presidenza della Repubblica. E se perdonabile è la sede – il primo convegno pubblico dell’Huffington Post, dunque la necessità di squillare – meno perdonabile è la motivazione addotta: “Vogliamo far partire da qui, da questo convegno, la proposta di candidare Liliana Segre alla presidenza della Repubblica, per togliere il Quirinale dalla partigianeria della politica”. E da quando, di grazia, la presidenza della Repubblica sarebbe espressione di politica partigiana? Anche più discutibile, se si prova a rileggere le parole dopo averle raffreddate, la motivazione che il direttore di Repubblica Carlo Verdelli ha aggiunto: “Candidare Segre significa candidare un simbolo che racconta un’altra visione dell’Italia”.
La senatrice a vita Liliana Segre va onorata, tutelata e garantita nel suo diritto di testimonianza per i motivi che ben conosciamo, e in nome dei quali si può anche sorvolare su certi tartufismi ascoltati in questi giorni (non da Annunziata e Verdelli, ovviamente). Ma trasformarla in un “simbolo”, per giunta di “un’altra visione dell’Italia”, cioè buttandola in partigianeria politica, in un paese in cui l’antisemitismo è invece bestia così trasversale, è un’idea criticabile. Non certo per banali motivi anagrafici, ma perché Liliana Segre va rispettata per quello che è, una pietra d’inciampo vivente per la nostra memoria. Trasformarla in un simbolo a uso di lotta politica, no.