Bachelet, un maestro
Più che ricordarlo sarebbe da riscoprirlo l'ex vicepresidente del Csm ammazzato quarant'anni fa
Un po’ per colpevole distrazione, un po’ l’idiosincrasia per gli anniversari, mercoledì 12 ho fatto surf sui quarant’anni dell’omicidio, alla Sapienza dove insegnava, di Vittorio Bachelet. Allora era vicepresidente del Csm. In molti lo hanno invece ricordato, e più che ricordarlo sarebbe da riscoprirlo. Tra le cose più importanti, l’intervista al figlio Giovanni – quello che quarant’anni fa al funerale disse quella preghiera incredibile (per chi non sia cristiano) – in cui si dice d’accordo che i brigatisti che uccisero suo padre siano oggi liberi: “Hanno fatto il percorso rieducativo previsto dall’articolo 27 della Costituzione e ritengo che mio padre come Aldo Moro, due persone che hanno dato la vita per la Repubblica e lo Stato di diritto, non possano che rallegrarsi di ciò”. Poi mercoledì sera ho visto, su Tv2000, un eccellente documentario che ne tratteggiava la vita e le idee, con molte testimonianze: “Un sorriso di pace”. Una figura di cristiano autentico, di giurista rigoroso, di politico dominato dall’idea della mediazione come strumento della democrazia. Tanti ex colleghi, docenti o persone che lo hanno conosciuto al Csm o in politica, hanno usato la parola “maestro”, qualcuno addirittura “padre”. Non è usuale, per un politico. Mi permetto una considerazione. Com’è possibile che in quegli anni di piombo, e poi con la canea giustizialista, l’Italia abbia buttato via, ucciso, una tale classe intellettuale, politica, tali maestri? Bachelet si sentiva ed era un professore, è stato maestro. Quel danno è stato fatto non solo alle istituzioni, ma anche alla nostra università. Quanti intellettuali sanno oggi esercitare un tale magistero, che è ben più di insegnare? Quanto servirebbe?