contro mastro ciliegia
Burgnich, il calcio arcaico. No cinesi
Quel nome antico, Tarcisio, era come un destino nella difesa della Grande Inter e di un'Italia antica: Aristide, Armando, Giacinto. Friulano, come i rocciosi protagonisti di un calcio che non c'è più. Se n'è andato a 82 anni, col suo silenzio sornione e per bene. In tempo per non vedere lo scempio che un cinese non altrettanto grande ha fatto della sua Inter
Quel naso antico da italiano in gita. E quel nome arcaico, come fosse predestinato a far parte di una difesa indomita, che sarebbe entrata di diritto nel mito anche solo per l’arcaicità onomastica: Giacinto, Aristide, Armando. E lui, il Tarcisio. Burgnich la Roccia. Lui friulano di terre basse, lui friulano di Ruda, nella campagna che va piana verso Aquileia, non tanto distante da Aiello del Friuli dove invece era nato Enzo Bearzot, e a meno strada ancora da Pierin, dove è nato Fabio Capello. Ma lui, in più, con quel cognome in -ich che sapeva di sloveno, di slavo, di confine vicino. Tarcisio Burgnich. Se si volesse trovare un altro nome per evocare un’Italia antica, schietta, terragna, ma a suo modo contenta e sorniona, non lo si troverebbe. Bisognerà scrivere un giorno, anche se probabilmente lo hanno già scritto, come mai il nerbo vittorioso, indomabile, taciturno e saggio del calcio italiano sia così spesso venuto da lì. E aggiungerci anche Dino Zoff, che con Burgnich iniziò nelle giovanili dell’Udinese. E altri ancora.
Tarcisio Burgnich, soprannome la Roccia, tanto per dire il temperamento in campo e la poca malleabilità con gli avversari, non è mai stato un cattivo. Un terzino di quelli che ai tempi miravano alle caviglie senza talento e senza pensarci su (“voi colpite tutto quel che si muove a pelo d’erba. Se è il pallone, meglio”, insegnava del resto in quel calcio Nereo Rocco. Il Paròn che veniva anche lui dal nordest, ma figlio di un altro popolo e di un’altra filosofia: triestino e giuliano). Burgnich non era così, era di quelli che oggi chiamerebbero un marcatore pulito. Uno leale. Del resto Rocco, triestino e giuliano, in quegli anni d’oro era seduto sull’altra panchina. Quella del Milan. La Milano casciavitt. Sulla sua, quella della Grande Inter di Angelo Moratti (quando i presidenti erano presidenti), c’era seduto un altro gran personaggio dal nome strano: Helenio. Il Mago.
L’amore e la famiglia lo avevano portato poi sulla costa Toscana, a Forte dei Marmi. Altro lato d’Italia, altra terra contadina e marinara di calciatori. Non senza aver assaggiato una carriera di allenatore senza troppo sapore e qualche amarezza. Ma anche lì stimato e rispettato, per la storia che si portava dietro come uno scudetto indelebile cucito sul cuore. La storia di Tarcisio la Roccia sta tutta lì, in quella solidità arcaica di un calcio popolare e per bene, senza divismi e procuratori e padroni miliardari ma con le pezze al culo. Sta tutta in quelle 467 partite ufficiali con l’Inter, quando non si giocava ogni tre giorni, nei suoi quattro scudetti, le due Coppe dei Campioni e le due Coppe Intercontinentali. E sta tutta nell’Europeo del 1968 vinto con l’Italia, ancora l’unico. E di certo anche in quel salto inutile, che non poteva arrivare così in alto, quando invece Pelé salì in cielo. E lui era sì la Roccia, ma quello era O Rey.
Se n’è andato di lunga malattia ieri, a 82 anni e in silenzio come un contadino friulano. Un friulano orgoglioso, con un nome arcaico degno della Grande Inter. E forse ha voluto andarsene per orgoglio, appena in tempo per non vedere lo scempio che un cinesino col nome moderno, attaccato alla pecunia e senza orgoglio stava per fare, ieri, della sua Inter fresca di scudetto. E un altro allenatore che se ne va quasi senza salutare. Ma tanto nemmeno si chiamava Mou. E nemmeno si chiamava Helenio.