God save Tomaso
Fragole, sangue e Montanari
Il caso (inesistente) di Oxford e la teoria della rivoluzione universitaria
La rimozione del ritratto della Regina al Magdalen College, una faccenda lecita, offre lo spunto al critico-docente per una filippica sull'università che deve includere e lottare "contro lo stato delle cose". Ma il primo compito non è insegnare e formare gli studenti migliori?
Che la notizia della rimozione di un ritratto della regina Elisabetta da un muro della Middle Common Room del Magdalen College di Oxford, interpretata come folle iconoclastia dell’antirazzismo o peggio come secessione della più famosa università inglese dal Regno Unito fosse ampiamente esagerata, lo aveva già spiegato da par suo Antonio Gurrado nella sua quotidiana Bandiera Bianca. Era semplicemente accaduto che i membri di una sorta club interno a un college privato, dunque legittimati a fare quel che credono nella loro sala esclusiva, avevano deciso di togliere un’immagine della Gracious Queen: che non è proprio come tagliare la testa a Carletto Stuart. Vero è che la notizia ha fatto un po’ di scalpore (in versione “realtà aumentata”: cioè interpretata come un gesto di sedizione ipercorrettista e anti britannico) “sui giornali di destra di tutto il mondo”. Ma qui ci si attiene alla sobria argomentazione fogliante di Gurrado, anche se è pure vero che una certa propensione per la modifica forzosa della storia gli studenti di Oxford la hanno dimostrata in passato. Ma non è argomento per il presente articolo. E’ più interessante notare l’architettura ideologica che sull’episodio è riuscito a immaginare Tomaso Montanari sul Fatto, fino ad argomentare che il vero scopo dello studio all’università è imparare a fare la rivoluzione. Idea destituita di fondamento dai tempi di Fragole e sangue a Berkeley.
Vale comunque la pena ricordare che qualche anno fa Oxford aveva adottato il programma “Diversifying Portraiture” per togliere dai muri i ritratti di “male pale and stale”. E gli studenti del Magdalen avevano votato l’introduzione per le matricole di corsi obbligatori contro il “razzismo istituzionale”. Ma queste le si potrebbero considerare attività collaterali a quelle che si svolgono in una grande università. Montanari, che pure di suo non toglierebbe una crosta da un muro per riallestire un museo, considerandola una bieca operazione mercatista, non si limita ad applaudire la scelta degli studenti. Si inventa invece un paragone, per spiegare quanto quella di Oxford sia una pratica democratica, quantomeno inquietante: “Se un gruppo di studenti italiani avesse rimosso da uno spazio autogestito un ritratto di Sergio Mattarella dopo che questi aveva nominato cavaliere del lavoro John Elkann, cosa sarebbe successo?”. Ma che vuol dire? Che la nomina di Elkann sarebbe da considerarsi disdicevole per Mattarella? O che il cavalierato è da considerarsi divisivo? Oppure è Elkann a essere disdicevole in sé? Strana argomentazione. Del resto serve a sostenere la sua tesi: “La vera cancel culture è quella contro il pensiero critico”. Perché il malvagio Potere che vuole impedire il pensiero critico usa un’arma di distruzione di massa: “Dall’università ci si aspetta ormai solo formazione professionale” e non invece “l’unica cosa a cui serve davvero, cioè un pensiero critico capace di guidare il cambiamento della società” e cioè “l’eguaglianza sostanziale, la giustizia sociale, l’inclusione, il rispetto e anzi la valorizzazione delle differenze”. Manca solo “Hasta la victoria siempre!”. Diamo pure per inteso che l’inclusione e la valorizzazione delle differenze sono ottime cose, ma farne lo scopo dell’istruzione universitaria, che c’entra? “L’università non deve mettersi al servizio dello stato delle cose” tuona il critico e docente (e chissà se insegna in piedi sui banchi, come il professor Keating). E’ ovvio che l’università debba creare menti libere. Ma lo fa insegnando, segmentando e selezionando il merito. Il cambiamento della società non è ancora un corso di laurea. Nemmeno a Oxford.