contro mastro ciliegia
Jean-Luc Godard il calvinista
Je vous salue, Godard. Il vero, il falso e il “gran dispitto”. Le ossessioni e il cinema
"Ogni immagine è bella non perché sia bella in sé, ma perché è lo splendore del vero”. Giovani e ingenui, non perdemmo comunque la testa davanti a questa fragorosa illuminazione: ma ci fece capire meglio perché Rossellini fosse tra i più grandi di sempre. Perché quelle erano le parole che Jean-Luc Godard aveva dedicato a India di Rossellini. Ma era il 1959, il pestifero calvinista non ancora convertito maoista stava girando À bout de souffle, che era già lo splendore del vero ma applicato alla vita come falso (d’autore). E l’eterno bisticcio – molto filosofico, molto parigino – tra i due differenti modi d’uso della macchina da presa finì per affascinarci, per un certo tempo. Del resto nessuno che ami il cinema s’è ancora liberato del ballo à trois di Bande à part, e la corsa dentro al Louvre ci perseguiterà in eterno, peggio del citazionismo bertolucciano (“Dicevo all’epoca, provocatoriamente, che avrei potuto farmi uccidere o uccidere per un pianosequenza di Godard”. Provocatoriamente un tubo, lo ha fatto davvero per metà dei suoi film). Dunque perché non ostinarci a cercare di capire se JLG ci fosse davvero, o ci facesse?
Che cosa erano i suoi tentativi di mostrare frammenti di vita reale, ma per dimostrare che nulla è reale, che tutto è produzione alienata delle macchine, compreso “l’uomo con la macchina da presa”? Pomeriggi a domandarsi se avesse un significato recondito quell’estetica dello sfregio, girare bellissimi pianosequenza e sottoporli poi a cervellotico découpage e rimontaggio, a volte francamente a cazzo, per vedere di nascosto l’effetto che fa. È ciò che rende metà del suo cinema inguardabile, ma l’altra metà adorabile – purtroppo quasi mai nello stesso film, così che è difficile dire: ehi, stasera danno La cinese, ce lo rivediamo? “Avvicinare le immagini provocando delle scintille” non è tutto il cinema, ma senza non esiste cinema. Giovani e ingenui perdemmo la testa, un paio di giorni, quando il Maestro senza fede sfoderò un film sulla Immacolata Concezione, Je vous salue Marie, anche se non capivamo dove volesse arrivare. Ce lo spiegò il cardinal Martini, che la sapeva lunga anche di cineprese dei non credenti: “Da una falsa idea di Dio deriva anche una certa falsità nel nostro modo di comunicare. Non è possibile che chi ha un’immagine di un Dio prepotente e dispotico, cioè privo di tenerezze, possa accostare e raccontare l’immagine di Maria e descriverla con accenti autentici”. Amen. Il film finì scomunicato, lui si senti orgogliosamente ginevrino e calvinista: ormai viveva nascosto al mondo, sulle rive del Lemano. E capimmo cosa c’era di stridente in Godard, quel suo avere il mondo “in gran dispitto”. E perché alla fin fine amassimo di più un umanista che amava le donne come Truffaut, o un cattolico settecentesco come Rohmer, suoi compagni ai Cahiers, che si divertivano a sorprendere la vita con tutto il suo miscuglio di sentimenti e vanità, mentre il calvinista ginevrino detestava il falso e si ostinava nell’impresa impossibile di volerlo distinguere dal vero. Ma, in fondo, è la stessa cosa che ancora lo rende magnetico: “Solo filmando si scoprono le cose da filmare”. Perché senza il più concettoso attaccabrighe della storia del cinema, oggi non avremmo il cinema. Nemmeno quello di Guadagnino.