Contro mastro ciliegia
Che squadrone questi americani
Altro che fondi “speculativi”. Gli stranieri migliorano il calcio
Il capolavoro della Dea che a Dublino ha schiantato il Bayer Leverkusen insegnando calcio europeo, come direbbero i telecronisti, resterà nella storia dello sport. Ma il capolavoro di Antonio Percassi patron dell’Atalanta può a buon diritto iscriversi nella storia del business moderno chiamato football. Ex calciatore e imprenditore lungimirante con i piedi ben piantati in un territorio di solidità encomiabile, nell’ormai folta pattuglia (il prossimo anno saranno nove) dei club di Serie A controllati da proprietà straniere – in massima parte americane – Percassi è l’unico presidente italiano a essere riuscito a cedere la quota di maggioranza della società ma a mantenere il controllo nel pacchetto azionario. Nel 2022 ha ceduto il 55 per cento delle quote a un gruppo di investitori statunitensi guidati da Stephen Pagliuca, a capo del fondo Bain Capital e uomo non digiuno di sport, è co-owner dei Boston Celtics. Ma con una attenta organizzazione del gioco (societario) degna di Gasperini è restato azionista di controllo, garantendo così continuità a un modello di sport e di business sostenibile (mai un bilancio in rosso dal 2016) che genera risultati sportivi, di crescita del pubblico e di valore economico.
Prima e persino oltre la finale di Europa League vinta dall’Atalanta, primo trofeo internazionale della squadra bergamasca, ci sono risultati societari e di modello sportivo eccellenti, merito del team di Percassi ma anche della spinta garantita dai nuovi soci americani. Un business win-win in ogni direzione, dalla rosa che sforna giovani talenti, e molto spesso li vende con eccellenti margini, allo stadio di proprietà al brand ormai europeo.
Non sempre va così. Nel Milan due passaggi di mano americani hanno eliminato la presenza italiana, per l’Inter il giro più lungo è passato dalla Cina, idem per tutte le altre squadre da cui sono uscite completamente le rappresentanze italiane. Non è detto che sia un male: e non solo perché “l’epoca dei mecenati” è in ogni caso finita, ma perché le nuove proprietà portano nuova mentalità e capacità. Il Bologna delle meraviglie dal 2014 è controllato da un gruppo di investitori nord-americani, guidati dall’imprenditore canadese Joey Saputo. Il Parma è tornato in A con la proprietà dell’americano Kyle Krause che nel 2020 l’ha rilevato dagli abissi. Molto dipende, come quando si parla delle doti creative italiane nella moda o nel lusso, dalla qualità del management. Il Bologna deve molto a un ds straordinario come Giovanni Sartori, che prima aveva costruito la macchina Atalanta, per non parlare di Beppe Marotta nell’èra dei debiti cinesi. Ma anche il piccolo Genoa Cricket and Football Club, dal 2021 controllato dal fondo di investimenti 777 Partners, sta facendo bene.
Bisogna chiarire: chi ancora teme i fondi e rimpiange i “patroni” di tasca larga non guarda la realtà. Le proprietà straniere hanno portato nel calcio non solo soldi ma progettualità, accountability, voglia di investire. Va poi detto che non tutto è fondo (nella retorica piagnona sempre “speculativo”). Il Bologna è di un imprenditore, industriali sono i Friedkin che forse riusciranno nella mission impossible di costruire uno stadio nuovo per la loro Roma, imprenditore è Rocco Commisso della Fiorentina (il fatto che siano per la maggior parte di origini italiane, compreso Gerry Cardinale, è un dettaglio: ma non senza significato). In ogni caso, ciò che accomuna il Genoa al Milan alla Roma non è “la speculazione”, il calcio “senza volto”. E’ l’interesse a investire in un sistema in cui si può far bene. Come ha spiegato al Foglio Nicolas Moura dello studio Morningstar Pitchbook, per gli investitori esteri il calcio italiano è uno dei migliori (dunque attrattivi) al mondo, ma è anche un “distressed asset”, e dunque un campo in cui c’è grande possibilità di far crescere attività e valori societari. Non è un caso che tutti i nuovi investitori puntino molto sulla costruzione di nuovi stadi di proprietà (vedere mercoledì l’Aviva Stadium di Dublino, dove si gioca più a rugby che a calcio, e pensare a certi catafalchi disfunzionali e antieconomici italiani era deprimente).
Come mai in Italia arrivano soprattutto gli americani, e non gli sceicchi del Golfo? Non c’è una risposta, ma certo l’attitudine al rischio d’impresa, e non al puro parcheggio di denaro destinato al soft power geopolitico significa qualcosa. In più, a livello internazionale sta crescendo il modello “multi-club-ownership”, e l’Italia è un buon campo per esperimenti. Sarebbe ora di smetterla con la puzza sotto il naso del “ma noi siamo il calcio più blasonato del mondo”, non lo siamo più da un pezzo. E capire che chi viene non è un barbaro di rapina, ci sono imprenditori che vogliono far crescere il loro settore. L’ultimo arrivato, forse non solo per caso, è Oaktree, che in realtà è il primo fondo di natura speculativa nel calcio italiano. E ovviamente viva Oaktree, sperando di non finire, come l’eroe ispiratore di questo spazio, impiccati alla Quercia degli Assassini, che è pur sempre ubicata vicino al Campo (di calcio) dei miracoli.
CONTRO MASTRO CILIEGIA