La ricerca dell'esatto (e dunque del vero) nella musica di Aldo Clementi

Mario Bortolotto

La scomparsa di Aldo Clementi, temuta di giorno in giorno con angosciosa attesa, sembra già confermare quanto da tempo sapevamo: la centralità della sua evoluzione nella vicenda che, dopo Adorno, è divenuta palese come Nuova musica.

    La scomparsa di Aldo Clementi, temuta di giorno in giorno con angosciosa attesa, sembra già confermare quanto da tempo sapevamo: la centralità della sua evoluzione nella vicenda che, dopo Adorno, è divenuta palese come Nuova musica.
    Clementi l'aveva accolta come indefettibile premessa ad ogni operare compositivo: era una maniera fattasi canonica, il cromatismo totale, assoluto, esteso a tutti i parametri. Ad un tratto, con caratteri di necessità, si affacciava un precedente fino allora impensabile: una sorta di convergenza d'opposti: la compresenza del diatonismo ricuperato e, con esso, di innumerevoli apporti. La soluzione del musicista era quasi ecumenica: accogliere quanto è possibile della tradizione musicale, un blues potendo aspirare alla propria presenza quanto un frammento dell'ars nova.
    Era inevitabile, per ottenere l'equilibrio perfetto, una sterminata cultura musicale: quale appunto nel compositore catanese, da sempre pronto ad accogliere, ed anzi a suscitare tali fusioni.
    Ragazzo, e già agguerritissimo, Clementi aveva trovato la soluzione nella scelta d'un maestro di radicalismo, e l'avea adottato senz'altro. Ma Alfredo Sangiorgi abitava a Merano, e ciò significava periodicamente una bella gita sugli sgangherati treni del dopoguerra.
    In ogni caso, l'opzione non implicava nulla che risultasse alieno dalle esigenze stilistiche dell'allievo: non v'è traccia di espressionismo viennese nella fase trentina, come nessuna apertura al barocco nella versione di Petrassi, che pur gli permise di concludere gli studi. E' proprio tale estraneità al gusto “romano” a farci comprendere come essa spieghi la scarsità delle esecuzioni, e anche meno della comprensione, che parve interrompere un riconoscimento prestigioso quale il premio della Società internazionale di musica contemporanea.
    Sembrava ad un tratto che la funzione venisse accolta come necessaria, ma in realtà la pratica clementina fu sentita sempre, in Italia, con note di estraneità. E, tuttavia, i riconoscimenti erano decisivi: a cominciare dalla curiosità di Igor Strawinsky, che aveva voluto ascoltare una seconda volta la partitura in questione: gli Episodi del 1959.
    Non è la dipartita di un tale inventore il momento equo per stabilire derivazioni, consensi o dissensi, e stabilire predilezioni o riflessioni critiche. Possiamo soltanto ripetere quanto altrove abbiamo scritto, seguendo, anno dopo anno, un progress tanto rigoroso, d'ampliabile esattezza: l'opera, infine, d'un devoto del rigore, come i maestri che amava.
    Clementi sapeva, da sempre, come il far  musica – anche umilmente suonando a quattro mani in casa – non avesse alcun rapporto con l'erudizione (che pur era sbalorditiva) ma con la ricerca dell'esatto, e dunque del vero: il “pour vivre” di Flaubert.
    Niente e nessuno potrà compensare l'assenza della guida geniale se non il ripercorrerne l'esemplare vicenda. Sit terra levis.