Quando il beato baritono Pio IX cantava “Casta diva” davanti a Liszt
Vibranti squilli di tromba si levano, o dovrebbero, per salutare l'entrata di un nuovo adepto nella Lega di David, da noi particolarmente apprezzato per la sua erudizione musicale e, anche più, perché il suo nome, ormai celebre, è perfettamente adattabile ad un motivetto caro alla nostra infanzia dominata dallo swing.
Vibranti squilli di tromba si levano, o dovrebbero, per salutare l'entrata di un nuovo adepto nella Lega di David, da noi particolarmente apprezzato per la sua erudizione musicale e, anche più, perché il suo nome, ormai celebre, è perfettamente adattabile ad un motivetto caro alla nostra infanzia dominata dallo swing.
Ultima, e più insigne impresa è ora un volume di oltre seicento pagine che si intitola, persino con modestia, Guida alla musica pianistica, ed in effetti contiene schede per ogni autore, grande o minore che sia. E se ci venissero chieste le sue credenziali critiche diremmo lui senz'altro grande, qui ed ora per discutere con noi del suo straordinario sapere: tre secoli, più di 2.000 composizioni, di cui cento di carattere monografico. Autore – il lettore accorto lo ha già capito – Piero Rattalino. Pianista, insegnante di pianoforte, cultore di cose musicali (e di quant'altre), il musicista ha già offerto assai studi sull'argomento, giustamente celebrati, ma questa volta non scherza davvero, e ci mette in imbarazzo: una sorta di touché.
Diciamo subito che crediamo di appartenere alla non fitta schiera che si occupa di tali questioni, addirittura aggiungendo qualche nome (piccolo piccolo). Ma infine, visto che l'autore accoglie in fondo al volume il nome di Tekla Badarzewska, spaventevole esempio di kitsch minaccioso (ma caro persino a Giovanni Pascoli), potremmo dare una mano, a nostra volta: citando brani un tempo pubblicati dalla benemerita Carisch, ove non mancava, se ricordiamo bene, persino un falso Beethoven, ahimè non più avvilente di tanti autenticissimi. Si diceva delle cento monografie. Anni fa, ne leggemmo una di Brahms, che ci lasciò vivamente sorpresi, anche se ne conoscevamo taluni precedenti.
E ovvio che, quando la statura del maestro è quella di un grandissimo, sia più difficile andar d'accordo: la grandezza mette in soggezione. Con i minori, o i minimi, le cautele e le incertezze aumentano, si finisce con risultare dialettici fino alla litigiosità.
Alla fine, tutto si calma, di solito. Ma non sempre. Ci pare, ad esempio, che i maestri dell'Impressionismo (che sono poi quelli del Simbolismo) siano trattati con tono leggermente inadatto alla loro grandezza: forse vi traspare una carenza amorosa? Ma certo Ravel ci sembra valga di più. Ai campioni della finis Austriae succede anche peggio: la modesta cautela per l'autore di Lulu e del Concerto per violino, pianoforte e tredici strumenti, ci continua a parere eccessiva. Ma certo, quando davanti a tali giganti (se ci si passa l'orrida metafora) si muovono riserve, che dire di nanerottoli come Satie, con buona pace di chi ne apprezza l'incerto humour?
Il nome di Rachmaninov era stato accolto, con giusta misura, già da taluni recensenti: non ci sembra che sia necessario insistere, la sua vezzosa musichetta si sente a tutte l'ore.
Un criterio, che non accettiamo nella sua prevalenza, è accolto come ovvia misura: quante esecuzioni, e quanti pubblici e, magari, quanti pianisti incantati da quella spuma, o delle ottave da sfoggiare! Il critico eccelle senz'altro ove si sofferma sulla centralità della tecnica; segnatamente, e pare assai discutibile, ove si tratti di fantasie, parafrasi o trascrizioni che dir si voglia: il che non significa che non si debba devotamente ascoltare la fatale Norma di Bellini-Liszt. Per la verità, eravamo un poco mal disposti constatando una assenza – quella del tenore – : ma ecco Rattalino comprendere quella lacuna con un aneddoto davvero incantevole: il papa Pio IX che canta “Casta Diva”, ovviamente in chiave di baritono davanti all'attonito Liszt. E' noto come un altro visitatore fosse ascoltato cantare un'aria del Turco in Italia. Oggi i Papi si occupano di teologia, il che è senz'altro più serio, anche se meno divertente.
Ma il capolavoro critico resta, a distanza di anni, l'immenso Brahms: lo comprendiamo benissimo, anche se lo scarso tempo a disposizione durante gli studi ci permise l'esecuzione casalinga delle Händel-Variationen, non certo delle Paganini che, ascoltate da Benedetti Michelangeli, ci avevano tolto il sonno per alcune settimane. Semplice lettura, si capisce.
Scrivere un libro di tale densità, e di un simile rifiuto d'ogni tipo di scusa, è cosa quasi impensabile: è evidente che non si tratta di impressioni, sia pur numerose: ma del ritmo stesso del vivere a segnare (senza scartare il resto!) un'intera esistenza.
Tutto ciò creerà anche qualche fiero dispetto: dove trovare le pagine che ci mancano di un Thalberg (salvo uno studio per prova d'esame), o di un Moszkowski, o di un Castelnuovo Tedesco, e di altri ancora? Lettura difficile, questa, certamente; e appassionante. Anche perché l'autore ama il dileggio, o persiflage, e non risparmia certo le sue punte. Non sempre gli riesce: insopportabile l'uso dei tre puntini, che fra l'altro è orribilmente ecclesiastico: come il “Carissimi”: da abolire all'istante.
Per il resto, valse générale.
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