L'inestirpabile fuoco di Chung per un Tristan und Isolde magistrale
Wagner Alla Fenice e i necessari “cantanti-attori” riaccendono il misterico rapporto tra Venezia e la Musica.
Se qualcuno ci chiedesse qual sia la ragione per la recente ripresa del Tristan wagneriano presso la Fenice, non avrebbe che da ripensare ad un detto (o magari verdetto) di Nietzsche, sul legame più che misterico fra Venezia appunto e la musica: di esso il filosofo intuì di colpo l'essenza.
Nel suo opus maius, Wagner affronta Tristan non più a partire da testi mitologici ben saldi nella memoria di un'etnia (a parte gli avvii dell'amico Lehrs) né, come nel Ring, legati ad eventi sospesi fra realtà storica e leggenda. Quanto sopravvive nel Lohengrin ad esempio – non a caso favorito dal gusto italiano contemporaneo – come definizione cronologica, ricostruita ambientazione, finanche color locale romanticamente inteso, scompare in quest'opera consegnata ad una sorta di soglia del Nulla, come corrispondenza di situazioni similari, stabilita quasi more geometrico.
Ne sorge la necessità di “cantanti-attori” – la formula è di Wagner – che, ai suoi tempi, non esistevano, e si dovettero creare con sforzi persino esasperanti. Né si creda che, oggi, essi abbondino: di lì il nostro stupore quando la realtà si dimostri meno oscura. Ma non necessariamente a Bayreuth, come occorreva in anni già remoti.
Trattandosi di un centenario da celebrare (anzi di un bicentenario) l'impresa fu arrischiata e, diciamolo subito, vittoriosamente condotta. Tristan und Isolde rappresenta il suo autore al vertice luminoso, come, nelle buone intenzioni, l'Otello di Verdi (a Venezia inscenato a sere alterne col Tristan), sul quale non saremmo disposti ad altrettale accoglienza, essendo quello un dramma su cui sono evidenti le tracce della fin de siècle che, nell'Italia umbertina, suona desolante: obbligando l'ascoltatore probo ad una continua attenzione riduttiva, antologica.
Il Gran Teatro, per contro, ha affidato le due opere allo stesso musicista: il coreano Myung-Whun Chung, ben noto, soprattutto a Roma, che ne ricorda importanti programmi. Dobbiamo confessare che, al nostro gusto, qualcosa si poteva attribuirgli di impreciso no, ma certo di leggermente estraneo. Dobbiamo, davanti a questo Wagner, dichiarare il nostro parere, ora affatto diverso. Il maestro di Seul (ma di mezzo mondo, ormai) è oggi interprete d'insolita sicurezza, d'inestirpabile fuoco. Il cultore di dischi (ve ne sono di tremendi) potrà segnalare, qua e là, soluzioni, su minuti frammenti, attente al gesto sacrale di Furtwängler, e anche più ai fremiti del suo illustre rivale, Karajan. Ma in tal modo si finirebbe col perdere proprio la visione d'assieme, che scorge in questa lettura una sorta di periplo arcano: tale è poi la via impervia della voluttà dominante.
Si ascoltano, in questa rilettura tanto precisamente scandita, accenti che altro non sono se non l'urgere sulla soglia, appunto, dei successori devoti: nessuno sembra mancare all'appello: Berg (s'intende l'autore di Lulu) perturbante capofila: non si saprebbe il più consono al timbro erotico del poema sacro.
L'esito di Chung implica interventi assai netti. Si ascolti il Preludio al prim'atto. La didascalia reca langsam und schmachtend: così “languido” invero mai l'avevamo ascoltato. Le pause dello squassante testo sembrano più che sopraffacenti, creano silenzi vettori di oppressione. Analogo discorso si potrebbe sostenere per il terzo preludio, seguito dalla “alte Weise” del pastore, imbevuta di malinconia e di attesa. Il Lied del giovane marinaio risultava qui ineffabile, laddove essa è scritta per una fresca, provocante voce tenorile.
Ma tutte le zone di Isolde anche più seguivano analoga direzione: e qui ci parve che l'interprete fosse affatto ammirevole, segnatamente già in quel primo atto, che effonde ironie, collere e sdegni di immensa risonanza. Tutto questo non abbiamo ritrovato nella chiusa, che il tempo ha reso quasi intoccabile, e che con Chung invece ripensava l'abbandono voluttuoso dell'esordio, e della invocazione quasi liturgica alla notte.
Tutti sanno quale attenzione abbia guidato la mano del compositore nell'introdurre, entro il fatale cromatismo, ritmi di marcia: si veda il tema di Kurwenal, ad ogni ricomparsa fino alla morte del fedele, ove diviene sigla funeraria di sconvolgente emotività, anch'essa appartenente ai momenti assoluti, più decisivi di una concertazione scrupolosissima, e tale da infondere all'orchestra rilievo fra i più decisivi.
Conciliare la vocalità fremente alla precisione sinfonica è ardua impresa: e necessita soprattutto, come si diceva, di cantanti implacabilmente sicuri.
Abbiamo accennato alla bravissima Isolde, Brigitte Pinter: voce non di particolare metallo, ma precisione stupefacente; raro fascino in quella di Tuija Knihtilä, mezzosoprano squisito.
Musicalissimo Tristan (e giustappunto attore nel senso preteso da Wagner) Ian Storey; non meno Richard Paul Fink, quale baritono esemplare nella moquerie della scena marina come nella commossa chiusa. Gradevole sorpresa è risultata la presenza autorevole dei comprimari, tanto trascurati nelle edizioni correnti: Marcello Nardis (Melot) in particolare.
Scenografia e costumi non brillavano certo per eleganza (oh, quella principessa d'Irlanda quasi stracciona!), e pazienza. Ma sono queste pecche marginali rispetto ad una partitura cui sarebbe illecito asportare anche una nota: caso unico in Wagner, che i Meistersinger ripetono, escludendosene l'ultimo quadro.
Il Foglio sportivo - in corpore sano