Che cosa pensano i Satiri quando li evochiamo per dire male di tutti gli Strauss-Kahn

Alessandro Giuli
Il più recente e rumoroso scandalo sessuale planetario riguarda Dominique Strauss-Kahn, lo sappiamo tutti e ne sapremo di più quando il processo in corso svelerà altri dettagli morbosi sulle orge e sugli appetiti incontenibili dell'ex capo del Fondo monetario internazionale. Ma sappiamo pure che il

Il più recente e rumoroso scandalo sessuale planetario riguarda Dominique Strauss-Kahn, lo sappiamo tutti e ne sapremo di più quando il processo in corso svelerà altri dettagli morbosi sulle orge e sugli appetiti incontenibili dell’ex capo del Fondo monetario internazionale. Ma sappiamo pure che il binomio sesso/potere accompagna l’uomo fin dai primordi, ed è divenuto banale perfino. Al riguardo gli esperti scomodano l’espressione “satiriasi”, che alla lettera indica una dipendenza fisica dall’eros, più una frenesia della carne che un malanno dell’anima. Il caso di Strauss-Kahn mi fa pensare alla figura del verro, il maschio della scrofa, un essere grufolante condannato dalla natura a non poter alzare il proprio sguardo fin su nel cielo. I Satiri invece possono, sono figure campestri antichissime e simpatiche, molto lascive, sì, ma di per sé gioiose: hanno capelli arruffati e nasi un po’ camusi, corna code piedi caprini (talvolta la coda è equina e allora si dicono Sileni), fanno parte del corteggio di Dioniso-Pan, abitano le selve e le rocce, propiziano la vendemmia, cantano ebbri e danzano e suonano il flauto di canna oppure la zampogna, insidiano le ninfe dei boschi e con loro si giacciono per accompagnare il risveglio fecondo della natura che si rigenera ogni anno. L’uomo antico li vedeva, i Satiri, o credeva di vederli, nelle loro esatte sembianze, e li temeva rispettosamente. L’uomo moderno li ha esiliati nei libri di mitologia, perché è presuntuoso e crede soltanto nell’esistenza di quel che percepisce coi suoi sensi impoveriti. In questo è decisamente inferiore agli altri animali: la mia gatta Camilla, per esempio, è spesso lì nel suo giardinetto che osserva concentrata alcuni esseri invisibili, a volte li accoglie con saltelli arabescati di festa, altre volte li scaccia soffiando. Morbido e sottile è il velo che separa una gatta dalle forze senza forma di cui è ricco l’universo.

 

A proposito di universo. Fin da ragazzini abbiamo imparato a scuola che in natura “nulla si crea e nulla si distrugge” poiché tutto cambia soltanto di forma. Allora mi viene in mente come anche i Satiri, dacché l’uomo moderno ha preso a disboscare le selve, a occupare le montagne, ad asfaltare sentieri e tratturi pastorali, possano essersi via via trasformati in qualcosa d’altro. Alcuni di loro saranno forse diventati spettatori invidiosi di quegli amplessi fugaci che gli umani improvvisavano in estate, durante le feste rurali, complice il vino ardente, accanto ai focheracci (i nostri nonni la chiamavano “camporella”), eccitati dalla sensazione che qualcuno potesse spiarli. E’ la stessa impressione che si prova a volte incamminandosi da soli lungo un bosco: si sente di non essere poi così soli: qualcuno ci sta guardando, sopra tutto al mezzogiorno, cioè nell’ora in cui Pan si riscuote e può suscitare il “panico” negli animi più sensibili. Ma certo la maggior parte dei Satiri si è parecchio incattivita, perché a nessuno piace essere cacciato dalla propria terra, e allora altro che panico. La letizia defraudata si trasforma in bisogno collerico, la libido si fa erotomania aggressiva e si alimenta d’immagini digitali, il corteggiamento può diventare stupro, il vino si tramuta in sangue e il paesaggio circostante non ha più nulla d’idilliaco: la cornice di questa mostrificazione sarà magari un casolare isolato, ma per lo più l’incubo va in scena fra mura famigliari di cemento armato, nei vicoli sconsacrati di una metropoli oppure nella suite di un albergo lussuoso affittata a tanti piccoli Strauss-Kahn. Eccoli, dunque, i nostri Satiri, incarnarsi dans espace d’un viol, ospiti inavvertiti di bipedi umani immondi, assumere le fattezze dell’infelicità, vendicandosi così dei subìti oltraggi.

 

Forse, questo mio, è soltanto un fantasticare in libertà. Forse no. Mi conforta sapere che è grosso modo la stessa opinione di Adamo, il fanciullo protagonista di un racconto quasi recente e pieno di stupefatta poesia, “L’albero e la vacca”, oppure è il punto di vista del suo autore Adrián N. Bravi (Feltrinelli). Nel libro, cito a memoria, c’è scritto che quando alcuni animali si estinguono la loro natura profonda rimane in circolazione, invisibile ma presente nel grande gioco del mondo. Per esempio alcuni tipi di tigri, e aggiungo io le tigri messicane con i denti a sciabola di cui parla Castaneda, quelle scomparse dodicimila anni fa e che il maestro Don Juan faceva vedere ai suoi giovani sciamani: ecco, tutta la violentissima tensione predatoria di quei felini deve essere ancora fra noi, a giudicare dagli istinti ferini da cui gli uomini sono posseduti. E così per ogni altra specie che trapassa. Ma dice proprio questo Adrián N. Bravi? Che importa, visto che è così vero.

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