A carnevale ogni eccesso vale, anzi è necessario come questa nostra epoca arcobalenata

Alessandro Giuli

E niente, oggi è carnevale. Cioè il giorno culminante, l’ultimo dei festeggiamenti che i più dicono martedì grasso, ma è una definizione troppo recente mentre il carnevale è antichissimo.

    E niente, oggi è carnevale. Cioè il giorno culminante, l’ultimo dei festeggiamenti che i più dicono martedì grasso, ma è una definizione troppo recente mentre il carnevale è antichissimo. In poche parole, quando vi mascherate da Arlecchino o Pulcinella per fare baccano in giro, state rievocando sotto spoglie aggiornate i riti di purificazione e rigenerazione affidati a Dioniso, re della festa, e ai suoi dèmoni della fecondità naturale – sotto forma vegetale o di animali come il capro e il cinghiale – che proprio in questo periodo propiziano l’uscita dal freddo inverno e la buona crescita dei semi interrati a settembre. Infatti alcuni fanno derivare il nome del carnevale dal latino carrus navalis, il carro di Bacco (da cui il “baccano”) che apre il corteggio danzante, come avviene ancora nei villaggi della Barbagia e in numerosi paesi del Mediterraneo. I sardi, appunto, rocciosi conservatori delle tradizioni pastorali pagane, usano ancora il verbo “carrasegare”.

     

    Nel mondo antico le maschere rappresentavano pure gli avi trapassati: erano ricavate dal calco in gesso del loro volto, venivano appese nell’atrio delle abitazioni gentilizie e poi indossate durante i cortei funebri per assicurare ai famigliari che il ricordo e l’energia dei loro morti restavano vivi e solidali. Defunti anche arrabbiati, talvolta, se trascurati dai loro discendenti. In effetti il carnevale dei Romani – i Lupercalia, festa dei giovani lupi/capri – andava in scena a febbraio (il mese della casta dea Februa che innalza le temperature del sangue per purificarlo) e cadeva nel mezzo delle celebrazioni per i defunti (Parentalia).

     

    Ma chi si maschera più, oggi, da Arlecchino e Pulcinella? Le maschere cambiano, sono affascinanti però. Certe persone sono così attratte dalle maschere che le temono, fanno fatica a guardarle perché se ne sentono guardate. Un po’ è vero, perché ogni maschera è “il doppio” di chi la indossa, nel senso che chi se la sceglie, più che mascherarsi, sta svelando una parte importante della propria natura profonda. Nei primi costumi di carnevale i fanciulli proclamano la loro indole e la loro differenziazione sessuale: pirati, robin hood e moschettieri da una parte (io a quell’età pretendevo spesso di abbigliarmi come Falcão, con il numero cinque cucito dietro la maglia della Roma e gli scarpini ai piedi); fatine scintillanti e damigelle dall’altra. Ma il carnevale è anche un momento in cui trionfano l’indistinto e la mescolanza dei generi, sopra tutto fra gli adulti, secondo una legge non scritta che prescrive una temporanea armonia del disordine. In questo caos si rivela il ritmo del cosmo e ci manifestiamo a noi stessi. A vent’anni avevo un amico, per esempio, che si mascherava sempre da strega. Non penso inclinasse genericamente all’omosessualità: era proprio una strega. Perfino chi è convinto di nascondersi dietro a una maschera veneziana, come fanno i lussuriosi nelle loro orge moderne sul tipo di “Eyes Wide Shut”, in realtà si sta spogliando d’ogni paludamento per entrare in un grande io collettivo che della lussuria ha il volto sazio e deforme. Ma certo, solo a carnevale ogni eccesso vale. E’ essenziale che poi la festa si concluda: deve ripetersi annualmente ma ogni volta avrà il suo termine (Terminus a Roma è un dio esigente, simboleggiato da una pietra di confine inamovibile, pena lo scivolamento nel conflitto) e non perché deve subentrare la triste condizione del senso di colpa e dell’astinenza: la natura non ha mai colpa, chi l’ama lo sa bene. Semplicemente, ci si riposa un poco dal baccano – qui penso alla straordinaria bellezza anche simbolica delle statue classiche con le fattezze marmoree di menadi dormienti, come tempeste appena placate – ma poi si avanza e, cessati i febbrili giochi carnevaleschi, ci si proietta verso la calma tenacia di marzo, lì dove regna il dio che protegge con l’asta acuminata i primi preziosi germogli (per questo Marte è tanto inesorabile in battaglia: protegge i germogli della città che sono i suoi giovani cittadini/soldati).

     

    Ma che succede se la festa non si ferma?, se l’ebbrezza non si placa?, se il carrus navalis non si arresta? Impossibile. Perfino nei nostri tempi così strani, la natura non sbaglia mai. Ed è per questo che mi stupisco dei tanti allarmati nemici dell’indistinto, di coloro che provano raccapriccio per le conchite wurst e i corteggi arcobalenati. A costoro, che vivono male il relativismo, bisogna indicare il punto di vista dell’assoluto che sorride intangibile al di sopra di questa temporanea, necessaria e in fondo così breve, epoca carnevalesca.