La legge e l'ordine pubblico non si discutono, vabbene, ma lunga vita agli Zingari e ai Valacchi

Alessandro Giuli
Non per dare un dispiacere a Matteo Salvini, non per ridimensionare un problema generale di ordine pubblico né per negare che gli assassini-pirati della strada vadano chiusi in galera senza pietà.

    Non per dare un dispiacere a Matteo Salvini, non per ridimensionare un problema generale di ordine pubblico né per negare che gli assassini-pirati della strada vadano chiusi in galera senza pietà. Però, ecco, devo dirla tutta: a me i Rom stanno simpatici, cioè mi piace tanta parte della loro cultura, che è più ricca di quanto possano far immaginare gli accattoni che sciamano spesso molesti nelle nostre città già di per sé così maleducate. Se è per questo io li chiamo anche Zingari e non mi sento affatto in errore: secondo il mio raro vocabolario etimologico di Ottorino Pianigiani, “zingaro” viene dal vocabolo Tchinganes e indica un’antica popolazione indiana dedita al nomadismo e – ammetto – anche al ratto. Io ho conosciuto Gitani magnifici nelle loro terre d’origine, in Bulgaria ho ballato al suono della loro musica nel corso di feste campestri o carnevalesche la cui colonna sonora era a base di pìpiza (la nostra ciaramella, per capirci) e timpani (ho anche acquistato da loro per pochi lèva una coperta di lana caldissima fatta a mano, soprannominata “il caprone”, e un tappeto sempre di lana su cui dorme il mio cucciolo di cane che in effetti mostra virtù e difetti irresistibilmente zingareschi). Ho scoperto, sempre nell’antica terra dei Traci, non lontano dai monti Rodòpi, che sono loro a custodire in gran segreto un tempio rupestre dedicato a un’antichissima Dea sovrana, una grotta in altura che non si può raggiungere senza arrampicarsi su alcuni scalini di legno che però sempre loro, gli zingari, si premurano di svellere nottetempo temendo che troppi profani vadano lì a curiosare. E a proposito di riti pagani, in Grecia, a Tebe di Beozia, la città di Cadmo, e nel paesino adiacente di Vàghia vengono ancora chiamati Valacchi e dal loro nome deriva il Vlachikòs gàmos, il matrimonio bacchico (in greco la lettera “B” si legge “V” e i Valacchi sono i Vlacchòi ovvero Bacchòi, gli iniziati al culto di Dioniso adorato fin dall’antico nel santuario dei Cabiri situato appunto tra Tebe e Vàghia). E’ una festa ancestrale che ricorre ogni anno a marzo, quando si mette in scena la morte-rinascita di Dioniso-Cabiro e il suo accoppiamento (ierogamìa) con la sua virginale e divina amante.

     

    Accompagnata da una musica stordente, coribantica e menadica, la coppia (due uomini, uno travestito da donna) giunge nella piazza centrale in groppa a due asini, quindi celebra il proprio amplesso in una capanna di fronde verdi, dopodiché i testimoni di nozze portano in trionfo un fazzoletto bagnato di sangue, prova dell’avvenuta deflorazione, e lo issano su un tirso, il bastone dionisiaco fatto con legno di pino sul quale è avviticchiata un’edera che guizza come una giocosa spirale fino alla sommità (dove in antico era fissata una pigna, pegno fallico del nume fragoroso). La cerimonia si conclude con il sacrificio di un agnello e un conseguente banchetto rituale, fra danze circolari e canti gioiosi. Festa pagana, dicevo, anche se io ho visto un pòpe arrivare proprio al momento del pasto e apparecchiarsi tutto soddisfatto al desco (anche fra i Valacchi, zi’ prete deplora-deplora ma poi magna a sbafo e pure di gusto). Un’antropologa e storica delle religioni francese, pochi anni fa, è diventata intima dei Valacchi tebani e sostiene di aver scovato fra le loro cianfrusaglie un’immagine lignea, e di fattura recente!, che rappresenta Dioniso-Cabiro, segno che la tradizione non s’è interrotta: sopravvive dietro la maschera tragica e sorridente del folclore.

     

    Sento già l’obiezione: che c’entrano i tuoi amici esotici con questi che rubacchiano qua e là, non pagano l’acqua e la luce e accumulano tesori nei loro campi ricolmi d’immondizia e spesati dal contribuente… forza con le ruspe! Mmm, le ruspe… e per (de)portarli dove, poi, di grazia? A Sofia e a Plovdiv, per dire, gli Zingari sono riuniti in cooperative e si occupano di spazzare la città, indossano pettorine arancioni con il timbro del comune e insomma puliscono, invece di sporcare. Secondo i detrattori, sono diventati monopolisti perfino, ma io penso che i cittadini li trovino piuttosto rassicuranti. Quanto alla spazzatura, la cosa più odiosa non è il fatto che la brucino (come facevano i nonni dell’Italia contadina), ma il fatto che oggi la monnezza sia per lo più di plastica. Allora il problema principale non sono i Rom, è la plastica: ne produciamo troppa e di un genere non biodegradabile, come i pregiudizi sui Rom. Viva l’ordine pubblico, sì, ma lunga vita agli Zingari.