Nel giorno in cui il fuoco di Vesta sfolgora più alto e forte, è bene ricordarsi dei lecci e della selce

Alessandro Giuli
La sporcizia è un fatto culturale e, finché non ci sarà una sollevazione, finché non pretenderemo una lustratio Urbis, una purificazione strada per strada, vicolo per vicolo, le impurità materiali e psichiche continueranno a signoreggiare sul nostro scontento.

    L’altro giorno ho registrato un video per il sito del Foglio il cui senso (e titolo) era: Roma fa schifo, ma anche i romani non scherzano. Parlo della Roma storica, perché l’Urbe intangibile riluce nell’eternità che non conosce prima e dopo, non può decadere. La città che abitiamo con il nostro io storico, questa sì, è un letamaio invivibile. La mia tesi è che i cittadini non sono meno responsabili dei cattivi amministratori. La sporcizia è un fatto culturale e, finché non ci sarà una sollevazione, finché non pretenderemo una lustratio Urbis, una purificazione strada per strada, vicolo per vicolo, le impurità materiali e psichiche continueranno a signoreggiare sul nostro scontento. Gli antichi padri potevano tollerare la presenza dello sterco equino sul lastricato, ma a cadenza ciclica procedevano alla lustrazione dei confini, vietavano la sepoltura di cadaveri entro il pomerio, l’area delimitata dal solco di fondazione, obbligavano i cortei funebri a muoversi di notte, con il conforto dell’indistinto. Non si tratta soltanto di norme igieniche, o meglio si tratta di un’igiene anzitutto immateriale da perseguire per la salute del popolo e del Senato. E Igiene viene appunto da Ighièia, la dea della Salute che si accompagna al dio della medicina, Esculapio, figlio di Apollo. La salute è uno stato dell’anima.

     

    Oggi (anzi da almeno due millenni) a Roma c’è un popolo brontolone e rassegnato e cafone, del Senato non ne parliamo, non ne parliamo perché non c’è più dai tempi di Quinto Aurelio Simmaco (IV secolo dell’èra volgare). Eppure non è questo un buon motivo per rinunciare a essere puliti quanto più possibile, a cominciare dal pensiero che è l’origine di tante sporcizie. Oggi, in particolare, ricorre la celebrazione dei Vestalia, è il giorno in cui le caste sacerdotesse e le matrone procedono alla purificazione annuale del tempio dedicato alla Dea del focolare cittadino, immagine vivente d’ogni focolare domestico (come dicono i saggi hindu, nostri cugini: il fuoco è uno solo, anche se lo accendono in molti) e di ogni altare interiore (per chi lo abbia). Accendere un fuoco, perfino un focheraccio campagnolo o la fiamma di un barbecue, non è mai un atto neutrale, diciamo pure innocente. Dietro c’è un Prometeo in noi, cioè l’uomo stellare che, a proprio rischio e pericolo, trasmette la fiamma attraverso la selce contenente folgore, scintilla primigenia. Fuoco e zolfo, zolfo e fuoco e poche semplici essenze, per esempio il rosmarino, sono alla base del nitore che rende sacro ogni rito, come insegnava il secondo re-sacerdote, Numa Pompilio. Lui veniva da Cures, la città sabina di Quirino e dei primi Quiriti, i cittadini del Lazio primevo. Era versato nella scienza delle folgori e trattava a tu per tu con Giove Elicio, il Signore delle saette che ha disseminato di querce la sua amata Sabina: il leccio, per esempio e non per caso, è detto quercus (s)ilex, l’albero-selce, perché possiede una linfa scintillante che viene dal Padre celeste. Ce n’era uno fino a poco tempo fa, di leccio, qui in Trastevere davanti alla redazione del Foglio, piccolo, quasi macilento. Si dice che il leccio sia un buon alleato contro l’inquinamento cittadino: tollera i gas di scarico e, gran faticatore, zitto zitto regala ossigeno a chi tenta di avvelenarlo, avvelenandosi. L’hanno abbattuto gli automobilisti selvaggi per parcheggiare sul marciapiede, e io l’ho tirato su una, due, tre volte. Poi, nottetempo, l’hanno spezzato e spiantato e gettato via chissà dove, nell’indifferenza generale, l’indifferenza che è la matrigna dell’impudicizia. E così siamo tornati a Roma e alla sua condizione miserevole. Si dice spesso che le plebi tendono a imitare le classi dirigenti al potere. E’ una verità, ma una verità che non assolve nessuno. Fra gli ultimi sindaci di Roma ho incrociato Rutelli, Veltroni, Alemanno. A vario grado mi sono parsi furbi ed empii (Alemanno nemmeno furbo). Marino non lo conosco, ma lui è un regalo di Alemanno e ho detto tutto (anzi l’ha detto per primo il mio amico Buttafuoco). Il migliore sindaco moderno resta ancora Ernesto Nathan, e ho ridetto tutto. Fu lui, nel 1911, durante le celebrazioni inaugurali per l’Altare della Patria, a pronunciare queste parole: “E nel mentre in mezzo al Campidoglio di un tempo sorge la statua equestre di Marco Aurelio, imperatore vindice del diritto, in quello or ora scoperto troneggia quella del re Galantuomo, vindice della fede nazionale”.

     

    La fede, per i Romani, suona come “fiducia” ed è una divinità (Fides) che presiede al rispetto della parola data: principale forma di purificazione interiore per chi non voglia vivere nell’immondizia. Come suggerì un gentiluomo che non svelerò, forse ispirato dal palindromo Genio di Roma, nel 1925: “Roma: e ivi è Amor! Ed è Fede! Ai Latini ingegni in Italia. E’ oracolo caro e Arca sacra. Roma domina l’animo d’Amor!”. E alto sfolgora il fuoco di Vesta.