Che cosa è bene ricordare quando, parlando della nostra casa, diciamo “due cuori e una capanna”

Alessandro Giuli
Non si può tassare la trascendenza, il focolare domestico (focus larum: la sede degli avi famigliari), la casa con le sue leggi sacre (in una parola: l’economia, prima che questo termine degenerasse).

    Non si può tassare la trascendenza, il focolare domestico (focus larum: la sede degli avi famigliari), la casa con le sue leggi sacre (in una parola: l’economia, prima che questo termine degenerasse). E’ per questa ragione che, progressiva o no, ci è massimamente insopportabile ogni imposta che colpisce l’abitazione di una vita. Ed è per questa ragione che, almeno in Italia, gli elettori tendono a premiare i politici o i demagoghi quando ricevono la promessa di una esenzione fiscale. Adesso è il turno di Renzi e io voglio credergli, pronto a negargli il perdono se si smentirà.

     

    Dopodiché c’è casa e casa. Quelle moderne, appartamenti costruiti senza canoni dentro palazzi di cemento arido, hanno perduto da secoli, millenni direi, la caratteristica essenziale che le rendeva pure e sante: la circolarità. Chiunque abbia visitato i resti di una capanna villanoviana, chi abbia saputo ascoltare la densità del silenzio che abita un villaggio nuragico, potrà comprendermi anche se non ha letto queste parole pronunciate dallo sciamano Sioux Alce Nero: “Avete osservato che tutto ciò che un indiano fa è in un circolo, e questo perché il Potere del Mondo sempre lavora in circoli, e tutto cerca di essere rotondo. Nei tempi andati, quando eravamo un popolo forte e felice, tutto il nostro potere ci veniva dal cerchio sacro della nazione, e finché quel cerchio non fu spezzato, il popolo fiorì”. Ma i tempi andati ritornano? A patto di superare i lacci del tempo, a patto di raggiungere l’hic et nunc, l’istante in cui si manifesta l’eterno. Ancora poche decine di anni fa, nell’agro pontino, i discendenti dei Volsci e degli Aurunci costruivano le loro rozze capanne circolari chiamate “kune”, memoria visibile di un modo saggio di stare nel tempo. La prima di queste capanne era la casa degli Dei, come quella trovata al centro del santuario in cui più tardi sarebbe stato innalzato il tempio arcaico della Mater Matuta a Satricum. Poi, in ordine gerarchico, veniva la capanna del capo villaggio, dove gli anziani venivano riuniti a consiglio dal re del pagus (noi pagani ci chiamiamo così perché ai nostri padri bastava un campo consacrato per racchiudere l’universo luminoso e abitarci felici), quindi le altre capanne per il popolo, per i pagani. “Ed essi – ci ricorda Giuseppe Tommasino nel suo libro “Aurunci Patres”, del 1942 –, tornando… risparsero le loro kone o lestre, fatte di ligustri o di cannucce della palude e costruite dal compagno industre, a protezione soprattutto della partoriente e del figlio, in forma prevalentemente conica a somiglianza della mammella muliebre col capezzolo in cima”. Il capo di queste tribù è l’eroe mitistorico delle origini, “il fondatore della razza, il Tarakone, che sarà poi il tirrenico Tarcon, il dominatore delle Kone, perché la sua capanna, più vasta, situata nel centro, andasse dalle altre distinta e costituisse la visibile sede del comando (la Tarakonia=Tarakina), il luogo donde a tutti giunger potesse la voce ammonitrice del veggente che recava conforto e terrore a un tempo”. Al di sotto del monarca, poi, in ogni famiglia, in ogni capanna e cioè in ogni kona, governa l’anima scettrata di un paterfamilias unito in vincolo con la sua donna, la materfamilias, per questo non bisogna mai sorridere con senso di superiorità quando si ascolta l’espressione popolana ma in fondo saggia: “Due cuori e una capanna”). Dacché l’uomo si è affacciato al mondo, la sua casa è un cerchio in cui la Terra Madre, Vesta, fa da base per la fiamma astata di Marte che si libra dalle braci delle generazioni passate e future: ed ecco dunque il suo luogo eletto nella capanna del sovrano Romolo, custodita con orgoglio sul Palatino dalla discendenza sua romana, in omaggio al capostipite nutrito dalle mammelle-kone della lupa mansuefatta.

     

    Sono arrivato a Roma, ombelico del cosmo, muovendo non per caso dall’estremo occidente dei nativi americani, residui vitali di un ciclo atlantideo (di nuovo il cerchio!) e passando per i popoli italici stanziati vicino al Circeo, il cuore della Patria Ausonia, o “Terra dell’Aurora e del Sole, sede della luminosa dimora di Circe, raffigurata, attraverso il lontano ricordo del tellurico cerchio di fuoco, quale figlia leggiadra dell’Astro fulgente che ha sede nell’Isola di Eea in cui riposano le danze dell’Aurora” (sempre il Tommasino). Adesso posso spingermi fino all’estremo oriente e, rimanendo in tema di capanne e di eroi, citerò la “Vita sovrumana di Gesar di Ling”, il poema nazionale dei tibetani che mi è stato appena donato da una persona preziosa, che con rime segrete accorda orizzonti gemellari. Si tratta di un testo leggendario raccolto tra il VII e l’XI secolo dell’èra volgare, narra le vicende del Romolo tibetano, anzi Cesare (Gesar), il quale debella i nemici del bene e, fra molte altre cose, accoglie la presenza degli Dei che gli si manifestano come “arcobaleni a forma di tenda”, e così anche il Guru Padmasambhava “rientrò nella sua tenda meravigliosa e si alzò lentamente nel cielo. Il chiarore che circondava la tenda lasciò per qualche istante una scia luminosa fra le nuvole, poi scomparve in lontananza”. La tenda, per le popolazioni nomadi, è l’equivalente della capanna circolare ed è sempre abitata da presenze più o meno invisibili (una volta l’insigne orientalista Giuseppe Tucci piantò la propria tenda nel posto sbagliato, offendendo un dèmone della Mongolia, e a momenti ci lasciava le penne ma per sua fortuna fu avvertito e salvato da uno sciamano del luogo quando ormai la febbre lo aveva stremato).

     

    E insomma guai a dimenticarci dove e in che modo abitiamo, quando parliamo della nostra casa e la difendiamo dai predatori di ogni specie. Se poi ci è impossibile dimorare in un circolo perfetto, non disperiamo: possiamo sempre e ovunque tracciare il nostro cerchio sacro, foss’anche invisibile, e così ripristinare il circolo di energia, convocare il Sole dentro di noi e proiettarne i raggi benefici intorno a noi. Ogni volta che accendiamo un fuoco all’aperto, tendiamo a delimitarne il perimetro in forma circolare servendoci di pietre. E’ un atto naturale e ci viene così, da quell’istinto che è la chiave della memoria cardiaca, come una capanna immateriale illuminata dal fuoco di un astro interiore.