Il senso di un aristocratico per l'ozio, l'ingiustizia e i segreti. Senza dimenticare i piccoli tiranni

Alessandro Giuli
Agosto, in antico, era un mese interamente feriato e, dall’epoca del suo principato, è dedicato a Ottaviano Augusto. Ogni giorno è utile per sposarsi, ogni giorno libero dalle solite incombenze. Ma per fare cosa? Riposare, sì, ovvio. Ma l’otium è una cosa seria, per certi versi gravosa.

    La mia dirimpettaia di colonna è in vacanza e io qui oggi mi sento un po’ solo, forse eviterò di cosmoscrivere fino al suo ritorno. Ho pensato però d’immolare queste righe proprio al vacuum estivo. Agosto, in antico, era un mese interamente feriato e, dall’epoca del suo principato, è dedicato a Ottaviano Augusto. Ogni giorno è utile per sposarsi, ogni giorno libero dalle solite incombenze. Ma per fare cosa? Riposare, sì, ovvio, senza dimenticare gli appuntamenti sacri dei Fasti (il nostro calendario). Ma l’otium è una cosa seria, per certi versi gravosa. Non è roba da tutti, sebbene quasi tutti, in occidente e non soltanto, si credano titolari di un diritto naturale a starsene spiaggiati ad arrostire. Questo non è otium, è un’adunata inoperosa di corpi svestiti. Provo a spiegarmi ricorrendo al modello che preferisco nella mia personale dialettica tra Sparta e Sibari, laddove la prima indica l’esempio virtuoso condotto all’estremo, la seconda il suo contrario.

     

    I Lacedemoni formularono tre requisiti indispensabili a riconoscere un autentico aristocratico: (a) la forza per sopportare un’ingiustizia; (b) la capacità di mantenere un segreto; (c) l’equilibrio sottile per impiegare in modo decoroso il tempo dell’ozio, che si fonda sull’interruzione di ogni travaglio e occupazione volgare (il negotium, da nec-otium). Per chi non voglia rimanere in superficie, è bene aggiungere che l’otium è anzitutto una disciplina utile per non smarrirsi nel mondo fenomenico, nella fantasmagoria di ciò che abitualmente si vede, si fa e si pensa in mancanza di una vera attenzione. Esempio pratico: giungere almeno per qualche minuto alla superiore consapevolezza che “non sono il mio lavoro, non sono il mio sonno e la mia fretta alla mattina, non sono la dipendenza dal caffè e non sono la fame di una colazione o di una donna, non sono la mia rabbia (anche quella legittima), non sono il mio sonno alla sera e non sono nemmeno la turba dei pensieri meccanici, bassamente associativi, che attraversano di continuo la mente”. Faticoso eh. Diciamo che è uno sforzo interiore non meno impegnativo dell’attività fisica che Catone maggiore, con piena ragione, riteneva consona al vir (un ferro consumato è migliore di un ferro arrugginito, diceva lui). Questo processo disidentificativo che ho appena descritto è concepito per sospendere il tempo, è difficilissimo, aristocratico appunto, e in apparenza necessita di tempo (ecco che le vacanze tornano comode). Ma può essere realizzato, anzi viene meglio se la disciplina si applica pure nella vita non feriata, sottraendo attivamente un atomo di otium alla passività delle occupazioni quotidiane. Esistono ulteriori prove per andare con l’otium oltre l’otium (c), ma su questo preferisco mantenere il riserbo, se non addirittura il segreto (b).

     

    E l’ingiustizia (a)? Diciamo che l’otium, se ben praticato, aiuta a sopportarla. Gli Spartani tuttavia si riferivano a un’ingiustizia precisa, quella inflitta al singolo cittadino dalla sua polis, la nostra res publica. E’ degno d’essere giudicato aristocratico chi sia in grado di subire senza rivoltarsi (e senza spezzarsi) un torto, un danno, una certa forma d’ingratitudine o d’incomprensione di cui purtroppo la Patria è prodiga, a volte, con i suoi migliori figli. Bisogna accettarla con stile, sacrificando un bene minore (l’orgoglio, la vita perfino) per un bene maggiore e comune in cui ci riconosciamo. Ma le altre innumerevoli forme d’ingiustizia, come tollerarle? In generale considero il perdono una forma di magia nera che produce disordine, prediligo l’adagio virgiliano “parcere subiectis et debellare superbos”, risparmiare i sottomessi e debellare i superbi, ma lo uso più per misurare la geometria delle passioni: vinci la tirannia della natura inferiore senza punire il corpo, quando si sia piegato alla tua superiore volontà. E qui scorgo il volto radioso di Marco Aurelio o la legge occulta dei Tantra (“fa’ tutto ciò da cui, volendo, puoi astenerti”). Agli spiriti più forti segnalo invece la sapienza dei Toltechi stanziati nell’attuale Messico, per come ce la riporta Carlos Castaneda, anzi il suo maestro Don Juan (“Il fuoco dal profondo”, BUR). “Un pinche tirano è un torturatore, qualcuno che ha potere di vita e di morte sui guerrieri, o che semplicemente gli rende la vita impossibile”. Figure dell’ingiustizia, i piccoli tiranni di cui parla Don Juan sono “quelli che tormentano con brutalità e violenza… quelli che lo fanno creando un’insopportabile apprensione… quelli che opprimono con la tristezza… quelli che tormentano facendo infuriare”. Ciascuno di noi, in famiglia, nel lavoro, fra gli amici, deve guardarsi da esseri meschini, molesti, sleali, scontrosamente inadeguati ma posti in condizioni di apparente vantaggio. Ebbene, queste anime disgraziate mettono la loro turpitudine al nostro servizio, ci tengono desti, vigili, agili, accesi. “Il mio benefattore diceva sempre che il guerriero che incontra un meschino tiranno è un guerriero fortunato”, svela Don Juan. “Se uno può vedersela con i meschini tiranni, è certamente in grado di far fronte all’ignoto senza pericolo e allora può sopravvivere in presenza di ciò che non si può conoscere”. A volte, per reazione, un sorridente calcio nel sedere è consentito, e non è una metafora. Basta non dimenticare la lezione: “Gli spagnoli furono tali pinches tiranos da porre a dura prova le più recondite abilità dei veggenti; dopo aver avuto a che fare con i conquistatori, i veggenti erano pronti ad affrontare tutto. Loro furono davvero fortunati. A quel tempo c’erano meschini tiranni ovunque: erano prezzemolo in ogni minestra”. Gli sradicati e gli sradicanti di oggi, con il loro corteggio di servi al comando, non sono troppo diversi dagli spagnoli invasori. Buone vacanze. Quod bonum (otium) sit.