Perché le cose, quando accadono, sono già accadute. La relazione di Ekatlos e un inedito del 1918

Alessandro Giuli
Le cose, quando accadono, sono già accadute. Più volte l’ho detto, l’ho scritto. E’ una legge di natura e non è distante da quel passaggio in cui Cicerone, nel suo De Fato, sostiene più o meno questo: tutto ciò che è possibile, o è già avvenuto, o avverrà.

    Le cose, quando accadono, sono già accadute. Più volte l’ho detto, l’ho scritto. E’ una legge di natura e non è distante da quel passaggio in cui Cicerone, nel suo De Fato, sostiene più o meno questo: tutto ciò che è possibile, o è già avvenuto, o avverrà. In altre dimensioni… in tempi remoti lontani o a venire… Per fare un esempio: il telegrafo senza fili fu ideato, certo, all’epoca di Guglielmo Marconi, ma le onde elettromagnetiche esistevano già, si trattava soltanto di scoprire che in esse palpitava latente la possibilità di prodigiose invenzioni. Nel mondo antico, per fare un altro esempio, si diceva che le mura di una città esistessero ben prima che il suo fondatore le edificasse, dopo aver tracciato il solco primevo: quelle di Roma attendevano Romolo, quelle spartane rimasero a dormire nei regni di sotterra. In altre parole, esiste un serbatoio in perpetua ebollizione, un calderone cosmico di bronzo nel quale fermentano conati di esistenza, un luogo invisibile esemplificato dal simbolo della grande serpe che morde la propria coda, l’Urobòros degli ermetisti, l’astrale. I grandi pensatori, i condottieri, i maghi neri e quelli bianchi vi attingono per modellare la storia, la virtù e i vizi di un dato ciclo storico. Un saeculum, diciamo noi edotti dalla Etrusca disciplina, e cioè l’arco temporale che va da un evento fondativo alla morte dell’ultimo uomo nato in quel giorno. E via così.
    Un esempio ancora, ormai non più incognito: nel 1929, qualcuno (o meglio: qualcosa) volle diffondere una relazione nella quale si raccontava di come un cenacolo esoterico, sul finire del 1913, due anni prima che l’Italia entrasse nella Grande Guerra, fosse stato in grado di evocare, suscitare, propiziare e presentire le forze di Vittoria che avrebbero accompagnato la Patria fino a Vittorio Veneto, riscattando l’onta di Caporetto. La relazione, intitolata “La Grande Orma” e firmata da Ekatlos, descriveva nel dettaglio alcuni passaggi fondamentali di quella vicenda, collegata a un ritrovamento archeologico e a un rito etrusco-romano di battaglia. Secondo gli autori-protagonisti, alcuni “segni che non possono fallire” guidarono il cenacolo e alcuni di essi preannunciarono la decisiva vittoria nella seconda Battaglia del Piave o, dannunzianamente, “Battaglia del Solstizio”, 15-23 giugno 1918.

     

     

    Non è mio compito, né qui né altrove, convincere gli scettici, quelli che ritengono troppo facile credere a un resoconto retrospettivo, sì, ma fuoriuscito post eventum. Non mi rivolgo a loro, nemmeno adesso che ho deciso di ripubblicare il breve scritto che segue e che uscì dal calderone, da Urobòros o dall’astrale, fate voi, un mese prima della fatidica battaglia. In quel momento, l’esercito italiano aveva da poco, e a gran fatica, superato il trauma di Caporetto e non era ancora in grado di lanciare l’offensiva dell’Adamello. Eppure certe forze vollero… e qualcuno le intercettò, qualcuno prese a irradiarle.
    Non è dato svelare il nome dell’autore né il luogo in cui apparve lo scritto (all’occorrenza…), ma dopotutto contano entrambi relativamente. L’essenziale sta altrove, nel clima psichico di un imminente trionfo voluto dal Fato.

     

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    “Tre anni. Un’epoca e una epopea. Una storia. Una proiezione di speranza. Un fulgore di gloria. Una scia di dolori. Una visione di vittoria. Una difesa vigile. Una offesa reiterata. Tutti gli entusiasmi. E le fedi più pure. E le volontà più tenaci. Gli amori più profondi. Gli odi più accaniti. Sacrifici ed entusiasmi: di individui e di collettività. Una efflorescenza sempre verde, sempre più verde, sempre più rossa. Una reminiscenza rinnovantesi, sempre più feconda, autogena ed eugenica, sempre più viva, di tutte le virtù, attraverso cui si afferma e sta un popolo, che dalla potenza, in una palingenesi eroica, d’un colpo, si rivela in atto, gigante, pari alle grandezze progenitrici, degno degli immanenti destini. Una dedizione completa, assoluta, italicamente generosa, romanamente grande di vita, di giovinezza, di valori, di sogni, di affetti, di amori, olocausti sereni e consapevoli di idee, di aspirazioni, di fedi, di virtù. Un miracolo. Una creazione, ex nihilo, di armi, di materiali, di tutto un vasto complesso congegno bellico, di un esercito, di uomini, di una nazione, di un’Italia. Di un’Italia nuova di combattenti, umili ed eccelsi, eroici, violenti, furenti, cinici, garibaldini, generosi, feroci, degni delle Aquae Sextiae, di Legnano e di Mentana. Con una volontà, la Vittoria contro tutte le viltà. Rafforzatasi codesta ferina volontà attraverso undici grandi vittorie asperrime, cento piccole vittorie grandi, contro una quota, un monte, una vetta, una roccia, un vallone, un passo. Vittorie italiche, sterili nella parvenza, cementanti nella sostanza. Rinata, codesta spasmodica volontà di vittoria, attraverso il dolore, ne l’umiliazione, sotto il pondo della vergogna, nello spasimo, nella tortura, nella disperazione di un irreparabile. Da l’onta di Caporetto infame germinano le glorie delle Termopili con le radici alle Melette di Asiago, gli speroni del Grappa, sulle rive del Piave più sacro dell’Isonzo e del Timavo immortali. Il nemico di tutti e di tutto non passò: quello dell’Italia restò, ad occhi sbarrati, vergognoso, confuso, vile, immoto. L’anima de l’Italia nuova trionfò delle debolezze, sui tradimenti, le ignavie, le resistenze, le inerzie, le infamie, le viltà, le miserie de l’alto e del basso. E trionferà in tutto il trionfo. Anche se non lo volesse la [parola incomprensibile nel testo originale] delle retrovie, lo compirà la virtù della trincea. Dopo tre anni, o dopo dieci. Perché la vita non muore. E quelli che muoiono per un’Idea si immortalano con l’Italia, ne l’Idea.

     

    Evviva! Evviva!

     

    Italianamente!

     

    Paganamente!”.