Epicuro in un busto in marmo della seconda metà del II secolo d.C., rinvenuto a Roma e custodito al Louvre di Parigi

La lezione aristocratica di Epicuro, il sorriso degli dèi e la freccia solare di Ulisse che atterra i bruti

Alessandro Giuli

    Ci vuole coraggio per essere epicurei. Non è una filosofia per il volgo, quella del filosofo di Samo, contrariamente a quanto credono i poveri di spirito, convinti che l’epicureismo sia una sorta di ateismo edonista al servizio d’ogni bassezza subumana. Nulla di tutto questo. Su “Epicuro e i suoi dèi” – è anche il titolo di un vecchio prezioso saggio scritto da André-Jean Festugière e appena ripubblicato da Castelvecchi – la penso come Julius Evola: un imperturbabile sorriso separa la condizione degli Olimpii dalle vicissitudini e dalle paure dell’uomo volgare. Il vero filosofo lo sa, non nega l’esistenza degli dèi ma, invece che temerli in modo superstizioso, cerca piuttosto di assomigliare a loro. Il che non è in contraddizione con la pietas romana, che è giustizia nei confronti del divino, la nostra pax deorum hominumque su cui poggia il benessere della cosa pubblica. E’ un farmaco dell’anima privata. Il valoroso Orazio si scherniva dicendosi Epicuri de grege porcum, ma in realtà serbava il frugale, elementare rapporto con la divinità in una stagione di esotismi invadenti. Giulio Cesare fu sospettato di epicureismo, pur essendo il più divino fra gli uomini della sua epoca e dunque avvezzo, diciamo così, a una certa confidenza con i numi che poteva giustificare la sua apparente neghittosità. Lucrezio venne frainteso, poiché disvelò l’essenza energetica del sacro e delle sue leggi che uomini ormai indeboliti ebbero bisogno di antropomorfizzare in statue (invero belle e, spesso lo si dimentica, obbedienti a canoni numerici più che umani).

     

    E’ bene richiamare la serenità con la quale Epicuro distillava il suo tetrafarmaco: “Gli dèi non sono da temere, non c’è rischio da correre nella morte, il bene è facile da procurare, il male è facile da sopportare con coraggio” (Festugière). Nella sua semplicità, la formula è ambiziosissima. Epperò lathe biòsas, vivi nascosto, ingiunge Epicuro e questa sua massima sembra contrastare con un’altra visione aristocratica, quella di Pitagora, che è particolarmente cara al vir romano e prescrive al contrario un impegno diretto e tenace degli ottimati a beneficio della res publica. Una sintesi credibile sarebbe arrivata in età imperiale, con lo stoicismo di Marco Aurelio: prendi senza illusioni, lascia senza difficoltà. Sullo sfondo c’è la consapevolezza che l’impegno pubblico può, sì, rendersi inevitabile, ma non deve condizionare la nostra inaccessa dimora interiore, lì dove arde una fiamma incontaminata dal mondo esterno.

     

    Spesso gli studiosi e i profani in generale cadono nell’equivoco di opporre dialetticamente visioni che appartengono a circostanze e secoli diversi fra loro. Se Omero nei suoi poemi faceva interagire uomini e dèi, è perché nel mondo arcaico la condizione umana partecipava in modo più profondo del sacro, non c’era scissione, separatezza, contrasto. Diomede poté addirittura ferire Venere, mentre la dolce madre proteggeva Enea dalla sua furia cieca. Ares perfino, il Marte ellenico, subì ferite di guerra a causa umana e il suo urlo di agghiacciato stupore ancora rimbomba. Platone ha poi biasimato Omero, dandogli dell’empio per via di quelle passioni così umane di cui l’aedo aveva rivestito gli dèi. Plutarco, parecchi secoli dopo, avrebbe insegnato che non gli dèi, ma i dàimoni che affollano i mondi intermedi sono portatori delle passioni caratteristiche negli esseri mortali. Epicuro, più giovane di Platone e molto, molto più vecchio di Plutarco, si accorse che i suoi simili stavano precipitando nella paura e nella complicazione. Il suo insegnamento, così malcompreso dai moderni, non induceva all’indolenza o all’empietà: lui prendeva atto che la materia umana s’era avvilita, corrotta, distolta dalla vera contemplazione di un empireo perfetto abitato da presenze benefiche e immote. Non sono gli dèi a eclissarsi, è l’uomo comune che se ne allontana improvvidamente; ma siccome gli dèi si manifestano attraverso gli uomini, accade che la moltitudine degli abbrutiti finisca per abbrutire, sconsacrandolo, il nostro mondo altrimenti animato di gioia vitale. Allora è giusto che i pochi saggi non perdano di vista il loro compito, riconoscendosi l’un l’altro e solidarizzando fra loro. Dice Epicuro (e sembra già di ascoltare l’eclettico Cicerone): “Animo nobile massimamente si concede a saggezza e amicizia: bene mortale l’una, l’altra immortale”. Ecco perché bisogna diffidare da coloro che ripetono spesso, di questo o quel conoscente: è un mio carissimo amico. L’amicizia vera, virtù aristocratica, non si proclama, si pratica in silenzio per irradiare superiore coscienza, sapienza consapevole d’iniziati, oppure per combattere contro le anime nere nemiche del bello che si riuniscono in branchi di randagi avidi del profitto. Costoro, in epoche di decadenza come l’attuale, il più delle volte occupano posti di potere e abusano dei propri privilegi in forma violentemente arbitraria. Disgraziati, nell’ordine stabilito dagli dèi velati hanno ricevuto in sorte il compito di propagare discordia. Vanno debellati, per legge di natura, ma sono già stati sconfitti da un ordine immutabile che si serve di loro come fa con le termiti e gli scarafaggi. Non so se Epicuro intendesse tutto questo, quando ci invitava a vivere celati al volgo. Eppure un certo nascondimento diventa utile per agire in modo efficace, e qui intendo il nascondimento del vero sé, del re di Itaca che fu ed è ancora Ulisse quando si traveste con panni cenciosi per ingannare i proci e meglio abbatterli con le sue frecce. L’arco di Ulisse è una falce di Luna nelle mani dell’eroe solare, apollineo (lungisaettante) e minervale (occhiazzurrato). La sua calma potenza interiore non teme gli dèi, perché rianima i numi che sono in lui, in noi. E così la saetta scintilla atterrando i bruti.