Cinghiali si nasce, ma questo vale anche per gli umani. Cacciatori (e adulti) si diventa, con disciplina

Alessandro Giuli

    Cinghiali si nasce, e vale anche per gli umani. Cacciatori si diventa, ma non ne conosco di autentici. Domenica ho letto e stellinato e rituittato la notizia, l’ennesima, di alcuni cacciatori aggrediti e feriti da un cinghiale. Questa volta, e non è la sola negli ultimi tempi, è accaduto in Ciociaria. Una ex collaboratrice del Foglio mi ha subito scritto, in chiaro: “Onore e gloria al cinghiale!”. Capisco il suo punto di vista, ma forse esagera, così come esagerato sembra essere il numero dei cinghiali in libertà presenti in Italia. La Coldiretti stima che siano un milione circa, raddoppiati negli ultimi dieci anni per via di un ripopolamento recente aggravato dall’introduzione di nuove specie ibride, di provenienza orientale. Tralascerei la questione delle razze suine, e di massima concordo con chi vorrebbe una campagna di abbattimento mirata. La affiderei però alla Forestale (esiste ancora?), che almeno agisce per conto della res publica, e non ai cacciatori moderni che sono per lo più seguaci di uno sport sanguinario praticato con mezzi incomparabilmente superiori a quelli animali: piombo contro zanne.
    Nel campo da tiro con l’arco frequentato anni fa a Roma si tramandava la storia un po’ leggendaria di un ex cacciatore (con licenza) che tirava usando l’arco preistorico, un pezzo di legno, volendo ricoperto con budello e corno di bufalo, e cercava di farlo in modo, diciamo così, leale. Andava nel buio fra i boschi, si cospargeva di fango per neutralizzare l’odore umano che allarma sempre gli animali selvatici, portava con sé una sola freccia: se andava male, digiunava. Una notte s’imbatté in un cervo, prese la mira, scoccò la saetta e centrò il bersaglio. Il colpo perfetto – così insegnano durante gli allenamenti con le sagome in 3D – è quello che colpisce di lato, sotto la spalla, all’altezza dei polmoni. Se si è fortunati, la freccia trapassando il corpo abbatte il cuore e atterra la preda, altrimenti sarà sufficiente attendere un minuto o poco più: l’animale imbarca sangue negli alveoli, va in choc soporifero e muore senza troppo soffrire. Se fugge, sarà sufficiente una breve tracciatura, il sangue polmonare si riconosce perché è di un rosso vivido e presenta qualche bollicina residua d’ossigeno, quello del fegato è invece denso e scuro. Il resto è affidato alla conoscenza dei princìpi basilari di scuoiamento e macellazione sul posto. La storia leggendaria non ha un lieto fine, o forse sì: il cacciatore preistorico fulmina il cervo, ma l’animale emette un grido umano, un gemito acuto di bambino stupito, offeso, violato. Poi crolla morto. Da quel giorno l’arciere smette di uscire per boschi di notte in cerca del suo pasto preistorico. Non so se abbia anche capito che l’arciere perfetto è colui che non ha più bisogno di arco e frecce: va a bersaglio con l’anima, perché questo è culmine della disciplina.

     



     

    Come il cervo e l’orso, il cinghiale è sacro a Diana, Signora della luce, dea lunare che ama le selve ai confini con gli spazi urbani e custodisce sotto la propria tutela i giovinetti fino all’età adulta. Il cinghiale rappresenta la forza vitale della natura nella sua forma nuda, vorticante, irrazionale perfino. E’ l’animale che mi porto dentro me, fintantoché non avrò raggiunto la maturità interiore e non soltanto anagrafica, e cioè l’èra del cinghiale bianco, l’età argentea di un’anima che inizia a spiritualizzarsi. A questo processo ermetico fanno riferimento i miti ellenici centrati sulla caccia sacra di eroi possenti, maschili e femminili, e che si conclude con l’uccisione rituale del setoloso suino: il cinghiale lattiginoso di Calidone, simbolo della virtù sacerdotale feminea (sempre alla corte di Diana!), viene in effetti colpito dalla freccia di Atalanta, la vergine arciera. Alla fine dell’Odissea, Ulisse viene riconosciuto dalla sua nutrice Euriclea la quale, pulendogli le gambe, scorge sul suo ginocchio una vecchia cicatrice provocata da una zanna di cinghiale che l’eroe aveva affrontato in gioventù. E’ un animale totemico, il cinghiale, come dimostra un vaso raro e prezioso del VII secolo avanti l’èra volgare, ritrovato nei pressi dell’etrusca Cere (Tragliatella) e conservato ai Musei Capitolini: fra molte altre incisioni più o meno esoteriche (dai Ludi di Troia alla ierogamia tra Teseo e Arianna nelle due vie principali, umida e secca), figurano sette giovani guerrieri che danzano nudi (una pirrica, o danza ignita di guerra), armati di tre corte lance e di uno scudo rotondo sul quale è effigiato il cinghiale. Ancora oggi iniziati e profani sanno che l’Ursa maior era in origine la Costellazione del Cinghiale. Infine, e dico infine ma potrei continuare a lungo, non bisogna dimenticare che i suovetaurilia, il sacrificio cruento che i Romani offrono alle massime divinità dell’Urbe, accanto all’immolazione del toro bianco (taurus, l’ostia prediletta da Giove) e dell’ariete (o più spesso pecora: ovis), prevedono lo svenamento di un maiale (sus) che è parente domestico del cinghiale nostro ed è a lui strettamente riconducibile. A volte è proprio lui a comparire, come testimoniano alcuni bassorilievi. Nessun cacciatore contemporaneo è tenuto a conoscere tutto ciò. Epperò chi spara a un cinghiale spara un po’ anche a se stesso, a quella vita forastica, adolescente, irrazionale e pre-civile che in antico veniva naturalmente sublimata dai ragazzi mediante un rito di passaggio cruento, guidato dagli adulti cittadini, e che spesso – ma ad armi pari o quasi, e per un fine non certo ricreativo – culminava proprio con l’uccisione di un cinghiale. Insomma stiamo parlando d’un animale di tutto riguardo, anche se irascibile e oggi molto invadente. E se attribuissimo alle sue attuali scorribande un significato simbolico, oltreché materiale? Dovremmo concluderne che una ferinità incontrollata sta superando i limiti naturali, è l’emblema di un infantilismo cruento che sconfina e grufola ormai anche nelle nostre città. Nulla di troppo, dice una massima pitagorica cui sono affezionato: dobbiamo riequilibrare l’irruzione delle energie selvatiche con un sovrappiù di maturità umana e di senso dell’amicizia perfino. Al resto penserebbe la Forestale, ma a quel punto i cinghiali li avremmo già acquietati noi.