La festa delle sorgenti, l'inesistenza del brutto tempo, i destini di Roma. Un tuffo dove l'acqua è più blu

Alessandro Giuli

    Oggi a Roma è la festa del dio Fonto, figlio del re Giano e della ninfa Giuturna. E’ prevista pioggia, se non pure temporale, insomma quello che sbadatamente siamo abituati a definire “brutto tempo”. Ma il tempo, che in questo caso va inteso come l’insieme delle condizioni atmosferiche date in un determinato momento, non è mai brutto né bello, è buono in se stesso sia che splenda il sole sia che s’addensino nembi tempestosi. Il dio Fonto, per esempio, ha bisogno di pioggia per rinnovare l’ardore delle sorgenti poste sotto la sua tutela, compresi i pozzi che nel giorno della festa vengono adornati di ghirlande fiorite e ricevono offerte di vino e olio. Esiste una letteratura vastissima sul significato simbolico delle acque sorgive e sulla loro funzione irroratrice di vita universale. Qui mi basta ricordare che la mola salsa, il liquido magico con il quale i sacerdoti aspergevano gli animali da sacrificare agli dèi (da cui il verbo immolare) era composta di sale, farro e acqua purissima prelevata dalla fonte di Giuturna (la mamma di Fonto!). La sacralità del tusco e biondo Tevere è stata celebrata da generazioni di poeti e iniziati, e ancora oggi alle pendici del Monte Fumaiolo (Forlì) c’è una colonna di travertino con tre teste di lupo sovrastata da un’aquila rivolta verso l’Urbe, sulla quale è incisa questa frase: “Qui nasce il fiume sacro ai destini di Roma”. E’ una delle pochissime cose buone ascrivibili al fascismo, che nella sua spesso vaniloquente celebrazione delle antichità italiche ha cercato di seguire in scia la grandezza dei padri risorgimentali. Ed è bene ricordare che nell’età umbertina fu ritrovata l’ara Fontis, il sacello del nostro benefico nume: è alle pendici del Gianicolo, dove abita suo padre Giano, per l’esattezza al di sotto del palazzo che ospita il ministero della Pubblica istruzione. E proprio a ridosso di questo piccolo santuario, le fonti antiche (io ricordo Cicerone nel De Legibus) ci dicono che volle essere inumato Numa Pompilio, il secondo re, colui che organizzò meglio di chiunque altro la vita religiosa di Roma. Misteriose coincidenze, dobbiamo ammettere: come se nelle vene occulte della res publica, al di sotto dei luoghi deputati alla educazione scolare dei suoi giovani, palpitasse un antichissimo serbatoio di energia trasparente, leggera, salutifera, non imbottigliabile da politici arruffoni e da arraffoni privati.

     

    Ogni volta che vi bagnate in acque termali, sulfuree o ferrose, radioattive o bituminose, non dimenticate il significato dell’acronimo spa: salus per aquam, un dono da custodire con gratitudine e da tramandare con cura. Le sorgenti purificano, cioè lavano via malanni epidermici, sedimenti psichici, incrostazioni materiali e immateriali. Nel loro guizzante fluire, le acque ci restituiscono alla dimensione fetale, amniotica, senza peccato o colpa. Perfino un tipaccio come Turno (fratello di Giuturna!), il valoroso re dei Rutuli che combatte contro Enea per contendergli la mano della principessa Lavinia, e cioè l’Italia turrita, quando si vide respinto dai Troiani decise di balzare con tutte le armi a precipizio nel fiume che “nel suo biondo gorgo lo accolse e lo sorresse con molli onde”, ma sopra tutto “lieto lo rese ai compagni, purificandolo di ogni strage”.

     

    Generose e sempre gaie, le sorgenti si accontentano di poco. Intanto di non essere inquinate da cattivi pensieri o da detriti immondi. Dopodiché, in cambio del nitore che ci offrono, a loro basta un piccolo dono: magari un fiore oppure una breve melodia di cui sono ghiotte le orecchie delle ninfe equoree. Poche note improvvisate con il mio flauto di corno caprino: è questo il conto che di regola saldo con gioia tra i flutti, e già mi sento al cospetto di Pan. In Albania, non lontano da Gjirokastra, in uno stabilimento spartano gestito da un ex ufficiale medico kosovaro, mi è capitato d’immergermi in un liquido caldo, scurissimo e greve, d’una densità oleosa, rigenerante: acque certo governate da presenze magmatiche, abissali. Sempre nella terra degli antichi Illiri, vicino a Butrinto, ho conosciuto invece il gelo di una fonte chiamata “Occhio blu”. A prima vista sembra un piccolo specchio azzurratissimo e mite, acquartierato com’è in una dolce radura frondosa, ma l’apparenza inganna. Temperatura: poco meno di dieci gradi in estate, una sfida e anche eroica, dicono, dal momento che il fondale è rimasto inesplorato. Gli albanesi non osano bagnarsi, si limitano a banchettare lì intorno. Io mi ci sono immerso gradatamente due volte, con alcuni amici (inevitabilmente maschi), la prima nell’agosto più torrido che Tirana abbia censito; la seconda, incoraggiato da una lunga sorsata di acquavite (salus per aquavitem…), in un piovoso maggio. In entrambe le occasioni la scena aveva un che di neorealista – dopo tanti bagni fluviali in Italia, ormai non faccio più caso all’effetto pasoliniano, tendenza idroscalo, ingenerato negli spettatori di passaggio – ma l’esito fu stupefacente e non riuscirei a descriverlo. Posso aggiungere però che il sentimento del mio eroismo fu subito travolto dalla visione di una famiglia rom, padre con due figlioli adolescenti, che di punto in bianco presero a tuffarcisi dentro, proprio al centro insondato dell’Occhio blu, dopo essere saliti su un costone di roccia. E da quel giorno il mio già alto rispetto per loro, per i rom, si è trasformato in ammirazione.

     

    [**Video_box_2**]Va da sé che la sorgente più santa, pura, bella e antica sta in Italia, per l’esattezza nelle selve più impenetrabili dell’Etruria. A Lei o a Lui, oggi nel suo dì festoso, voglio dedicare un personale adattamento di alcuni versi che Orazio compose per onorare il suo Fons Bandusiae: “O fonte dei Primordi più splendente del cristallo / degno del dolce icòre non senza ghirlande, / sarai tu pur fra i nobil fonti / per me che canto l’elce sovrastante / i cavi sassi donde / le linfe tue zampillano”. E che Fonto benevolo ascolti.