La nudità è un vestito divino e non va presa alla lettera, come la verità (e certe pitture omosex)

Alessandro Giuli

    La verità è spesso nuda, ma bisogna saper decrittarla e non tutti possono. Mentre scrivo, qui al Foglio, mi fa compagnia una cartolina raffigurante la così detta Venere Capitolina: se non fosse per il naso posticcio, direi che si tratta della perfezione sotto forma marmorea. Una perfezione nuda e casta. La dea sembra voler nascondere il proprio sesso con la mano sinistra aperta in un gesto di naturale, dolce protezione; l’altra mano si dirige invece verso il seno sinistro, ma più che coprirlo pare in procinto di sfiorarlo con il pollice. A guardarla con occhi nuovi, gli occhi dell’anima di cui parla Platone, viene il sospetto che Venere stia occultando un segreto, e che voglia indicare, più che svelare o celare. La castità, per i nostri avi, non corrispondeva all’astinenza, alla rinuncia, alla percezione autocolpevolizzante del femminino dilagata in occidente con il paolinismo. No, castità è uno stato dell’essere raggiungibile da una coppia capace di spiritualizzare la carnalità – insopprimibile! – di un legame erotico. Ad divos caste adeunto, recitano le XII Tavole. Agli dèi ci si accosta con questo stato di grazia, di venia, attributo di Venere, nume che riflette la legge dell’attrazione universale antropomorfizzata secondo i canoni della bellezza suprema, una Venustà che irradia forza (vis) e (et) amore (amor) dalle sorgenti primigenie dell’energia cosmica: il cuore (ecco il seno sinistro sfiorato dalla dea!) e il sesso (coperto dalla mano sinistra di Venere, con le dita aperte a indicare il numero cinque, la Stella del mattino, il pentalfa dei pitagorici che vi riconoscono il segno geroglifico del microcosmo interiore da armonizzare con la natura animata di presenze immateriali…).

     

    La nudità va interpretata, e nell’iconografia classica è un attributo divino o eroico. Non troverete nei musei una statua in cui Giove figura svestito dalla cintola in giù: il re degli dèi e degli uomini è pura luce che risplende celeste, non ha senso cercare in lui una dimensione inferiore che non c’è. Altre divinità invece sì, amano mostrarsi senza veli, e così pure gli eroi o gli uomini cui vengono riconosciuti attributi d’eroismo (mediante riti precisi, cerimonie tramandate di generazione in generazione per fissare una presenza eccelsa e testimoniare che la scintilla divina guadagnata da alcuni uomini nell’esistenza terrena non si è corrotta ma, al contrario, alimenta un fuoco che non si estingue). Lì dove invece, su pitture e affreschi per lo più di ambito greco ed etrusco, vedete atleti e schiavi, dovete indovinare altro. La raffigurazione del ginnasta, del domatore di cavalli o del pugile, del discobolo o del corridore, evoca un mondo arcaico nel quale la competizione agonistica non è mai un affare soltanto umano, perché riflette e simbolizza un’azione divina trasfigurante (è la dea Vittoria a incoronare il successo di ogni mortale): i ludi, in antico, erano cerimonie sacre nelle cui sembianze mondane si celava il moto degli astri, il canto delle costellazioni, la mappa vivente della vòlta stellata. Quanto agli schiavi, sempre individuabili per le dimensioni ridotte, erano detti non per caso “Camilli”, dall’etrusco-traco Catmile, e cioè piccoli Mercurii: sono i servitori del dio dei servigi, il messaggero degli dèi, non hanno una personalità propria perché ognuno di loro esemplifica in scala un compito essenziale com’è quello di collegare i due mondi estremi (cielo e inferi) con il mondo di mezzo (la terra). C’è un gruppo scultoreo famoso e bello in cui Ganimede, il pastorello frigio divenuto coppiere di Giove, è posizionato a metà tra l’aquila (animale celeste) e il cane (animale di sotterra). Bisognerebbe riflettere, forse, prima di accusare Giove di lubricità a sfondo omo o etero sessuale… mai accontentarsi del dettato volgare, foss’anche quello di Ovidio.

     

    Obiezione: e che ci dici delle numerose, frenetiche scene di accoppiamenti espliciti ritrovati a Pompei, così come in tante pitture vascolari o tombali? Dovrei ripetermi: mai accontentarsi dell’apparenza. Nella Tomba dei Tori, a Tarquinia, è dipinta una scena in cui un toro, con un volto barbato, umanoide e visibilmente eccitato, sta puntando una coppia di uomini impegnata in un rapporto anale. Colui che monta (parte attiva) ha la pelle di un rosso vivissimo rispetto a colui che riceve il seme (parte passiva) e lo fa, ricurvo, appoggiandosi a un giovane alberello. L’immagine è oggetto di studi e congetture, una delle quali in particolare suggerisce che il rapporto omosessuale non sia che il travestimento di una pratica magico-botanica derivata dall’oriente mesopotamico e centrata sulla “naturale-non-naturalezza” dell’innesto. Chissà. Non si può dire che Romani, Etruschi ed Elleni condividessero un’unica idea dell’eros. E non nego che una certa lascivia si sia affacciata dall’età classica, sopravvivendo (ingigantita e sempre più volgarizzata) fin nell’evo moderno e in modo curioso nella Grecia contemporanea: ho conosciuto innumerevoli bagni termali in Italia e all’estero, ma in nessun luogo come a Paros o a Samotracia (l’isola di Catmile-Ganimede!) mi è capitato di ricevere tanti inviti a condividere la nudità maschile con i nativi Elleni. Questione di abitudini… Eppure io resto convinto che la nudità pubblica, come la verità, sia un vestito divino da indossare con cura e prudenza.