Il lavoro del commissario Tronca, il canto degli alberi sacri a Roma, la lezione civica del Bar Glorioso
Se fossi il commissario Francesco Paolo Tronca andrei subito a farmi una passeggiata per le ville comunali di Roma. Un palermitano fiorito su al nord, a Milano per lo più, non è destinato ad avere vita facile nella Capitale dei veleni politici e dei miasmi ambientali. Gli alberi di Roma potrebbero ispirarlo meglio di quanto sappiano fare i dirigenti del Partito democratico. Gli alberi di una città, testimoni secolari di lunghe glorie, sono come stranieri benefattori: escono dal loro luogo naturale boschivo per ossigenare l’aria dei mortali senza nulla chiedere in cambio, se non rispetto. E per chi voglia ascoltarli, sono consiglieri preziosi. I platani, per esempio, di cui è punteggiato il sinuoso percorso del Tevere e che dal XVII secolo dell’èra volgare occupano a Villa Borghese una valle sacra. Ultracentenario, se lo voglia, il platanus orientalis ha una dignità speciale fin dall’antichità. Platone ambienta quel meraviglioso suo dialogo che è il Fedro sotto le fronde di un platano, sulle rive del fiume Ilisso, accanto a un santuario dedicato alle Ninfe: lì dove scorre acqua sorgiva gioiscono intelligenze immateriali, come suggeriscono le fatate libellule dai molti colori, e anche negli alberi trovano domicilio presenze sottili, a volte anche irose (attenti ai venerandi tassi!).
Ammetto di aver molto odiato e molto amato un platano in particolare, che ora non c’è più. Era uno fra i tanti che costeggiavano via di Tor di Quinto, vicino alla grande caserma dei Carabinieri. Proprio su di lui, in una piovosa notte di fine novembre, si è schiantato sotto i miei occhi un amico che era più d’un fratello (qui lo chiameremo Ettore). Colpa del motorino che ci lasciò a piedi, colpa del buio o delle dolci puttane in mostra, semisvestite, in quel grande parcheggio adiacente alla corsia interna. Fatto sta che a un certo punto un’automobile si portò via il mio amico e in un attimo lo lasciò agonizzante ai piedi di quel platano, le cui radici bevvero un lago di sangue acerbo, puro, mescolato a lacrime che non si asciugarono mai (il pilota di quell’auto, anima disgraziata, era troppo scioccato per aiutarmi nel primo e frenetico e vano soccorso; in cuor mio non smetterò mai di ringraziare la mano generosa di una puttana accorsa lì, e che come una Parca dolente posò la sua mano sulla fronte ormai incosciente di Ettore, umettandola con uno straccio rimediato chissà come). Da quella notte, per molte lune, ho levato al cielo i miei ululati: se solo non fossi stato lì, tu, platano assetato… se solo ti avessero piantato due o tre metri più avanti… Da quella notte il platano di Ettore ha cominciato a diventare il suo vero sepolcro e, come spesso capita a Roma, la memoria privata di un sacrificio umano è diventata la sua nuova corteccia: sciarpe della Roma, chiodi su chiodi per reggere quadretti, amuleti, messaggi, ricordi… e poi fiori, sopra tutto gigli bianchi. Assieme ad altri amici, decidemmo di piantare ai piedi del platano una piccola lapide di marmo con su scritta una frase della Bhagavad-Gita, testo sacro hindu che ci è caro: “Ponendo a pari gioia e dolore, / vittoria e sconfitta, / armati per la battaglia. / In tal modo non vi sarà colpa / nella tua azione”. Con il tempo, a forza di radunarci lì per onorare in silenzio i Mani del giovane amico, portando gigli, libando vino, quel platano mi è diventato famigliare, ho ascoltato la sua versione dei fatti e ne ho finalmente colto l’innocenza: avevamo un segreto in comune, soltanto noi due potevamo sapere che una parte di Ettore era rimasta lì, nelle sue linfe verdeggianti, in attesa di trovare la definitiva liberazione. E la liberazione sarebbe giunta una decina d’anni dopo, quando anche il platano ha lasciato il mondo visibile: sradicato assieme a tanti altri, e senza complimenti, per ragioni di sicurezza – così dissero – collegate alla visita romana di Gheddafi, che proprio a Tor di Quinto pretese di piantare la tenda beduina. Mi spiacque molto vedere un palo di ferro al posto del nostro platano, ma era destino, com’era destino che Gheddafi un giorno sarebbe stato scovato in un tombino e sbranato dai suoi nemici.
L’altra mattina, passeggiando in via Dandolo all’altezza di Villa Sciarra, ho visto un paio di tronchi segati alla base in un modo strano, uno ha come una spalliera naturale e sembra il trono di un sacerdote della dea Furrina, la signora del luogo: è tutto quel che rimane di due platani appena abbattuti: erano malati di un malanno che chiamano “cancro colorato” (è l’azione odiosa di un fungo), non c’era altra soluzione. E così, uno dopo l’altro, scompaiono i custodi secolari di una città abbandonata dai suoi cattivi amministratori. Il commissario Tronca deve sapere che il Comune di Roma non è in grado di piantare nuovi alberi al posto di quelli morti: non ci sono soldi, hanno fatto sapere. Ma non è finita qui, anzi può finire bene perché Roma, in situazioni estreme, ha imparato ad autogestirsi. E’ nata un’associazione no profit di cittadini, “Trastevere Attiva”, e ha lanciato la campagna “Ripartiamo col verde”: una raccolta di donazioni per comprare, piantare e innaffiare giovani alberi per i primi due anni, a spese private. Non saranno altri platani, per ora, ma frassini (fraxinus angustifolia) e paulonie (paulownia tomentosa). La paulonia è un albero sacro per gli asiatici, al punto da apparire nei ricami delle vesti imperiali. Il frassino è un guaritore naturale, salva dai serpenti velenosi, ha consuetudine con il fragor dei fulmini ed è caro allo Scuotiterra Poseidon. I Germani lo identificano con l’Albero del Mondo, Yggdrasill, e ai suoi piedi si danno convegno sommi numi, eroi della stirpe e lupi custodi. Gli organizzatori dell’iniziativa trasteverina si riuniranno invece giovedì, alle 18.30, al Bar Glorioso, che è un po’ l’ombelico storico del quartiere, asilo per intellettuali, cinematografari, netturbini e amanti degli animali. Ci assicurano che sui giovani alberi in arrivo sarà visibile il nome del donatore e, volendo, anche una dedica personalizzata. So già che, almeno idealmente, non mancherà questa: “Il fiore d’oriente vi schiuda al ricordo. / E potente il frassino segni la via / del ritorno mio chiomato / di platano”. Firmato: Ettore.
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