Febbraio è mese di festa, culto degli avi, purificazione e rinascita. Triomphe! Triomphe! Triomphe!

Alessandro Giuli
Febbraio è mese di festa, ricordo degli avi e purificazione, le tre cose possono coincidere. Il carnevale libera temporaneamente dai vincoli della personalità comune, ordinaria, e con il favore di Bacco ognuno sceglie la maschera che più gli si addice.

    Febbraio è mese di festa, ricordo degli avi e purificazione, le tre cose possono coincidere. Il carnevale libera temporaneamente dai vincoli della personalità comune, ordinaria, e con il favore di Bacco ognuno sceglie la maschera che più gli si addice. In certi giorni precisi è lecito, se non consigliabile, godere del vino e della carne. Con senso della misura, ovvio, ma ciascuno deve trovarla in sé questa misura. Conosco, per dire, un autentico satiro dai piedi caprini e le orecchie acuminate (le oraziane auris capripedum Satyrorum acutas!) la cui condizione naturale è quella lieve possessione consentita da mezzo litro di vino in corpo: sobrio, immalinconisce rabbuiato, si spegne nell’inedia; visitato da Bacco, sangue della terra, si accende e irradia tutt’intorno una letizia visionaria. Il suo opposto è l’altrimenti anonimo Acìndino citato dal Luciano dell’Antologia Palatina: “… trovando tutti ubriachi, / non volle bere. E per questo lui solo / parve l’ubriaco”. Il rito bacchico carnascialesco prevede insomma una quota minima di ebbrezza e sensualità. Ma la via dei coribanti e delle menadi è spesso costellata da eccessi, bisogna avere una predisposizione (e una guida) per non smarrirsi nell’entusiasmo liberatorio (nella Roma dei nostri padri Bacco-Dioniso era detto Pater Liber, ma il consumo del vino era posto sotto la tutela ordinatrice giovia).

     

    Questo mese è sacro a Februus/Febris, e a Iuno Februa, divinità aerea e consorte di Giove che ha l’officium di liberare dalle impurità il respiro del cosmo. A questo, su scala ridotta, servono anche le febbri stagionali cui gli uomini sono soggetti in questo periodo. Si dice comunemente che nei bambini la febbre è un piccolo choc necessario alla loro crescita sana. Per gli adulti non è poi così diverso, essendo Febris non la causa di un morbo ma il segno del suo incipiente superamento, per lo meno in condizioni naturali.

     

    Sempre a febbraio, secondo gli antichi calendari, prima e dopo la festa carnevalesca (ma anche attraverso di essa!) è d’obbligo onorare la memoria degli avi defunti nella ricorrenza dei Parentalia-Feralia. Sospesi matrimoni e riti pubblici, ci si dedica alla memoria di chi ci ha preceduto nel circolo delle generazioni e, lungi dall’essere per intero scomparso, alimenta un serbatoio di energie (gli dèi Mani) dalle quali è possibile attingere. In un certo senso le maschere che affollano vie e piazze festanti non sono altro che la personificazione di queste forze, omaggiate mediante offerte di farro e sale, attratte dallo sfavillìo dei fuochi famigliari e gentilizi, indotte così a fecondare la natura risvegliandola dal cupo gelo invernale. Non c’è nulla di penitenziale in tutto ciò; ricordo anzi che nel secolo scorso uno studioso attento e profondo come Ciro Nispi-Landi sosteneva che i primi templi etruschi nacquero intorno alle tombe più o meno monumentali dei grandi principi della Tirrenide. Se così fosse, dovremmo interpretare i banchetti funebri, i ludi scenici e i combattimenti gladiatori come l’archetipo di ogni convivialità apparentemente profana: non si è mai soli, in famiglia o in società, durante le nostre celebrazioni quotidiane. I focolari domestici (focus larum, la fiamma degli avi) così come l’Altare della Patria stanno lì, visibili oppure no, a ricordarcelo.

     

    Alla fine del suo magnifico studio sul “Carnevale Re d’Europa - Viaggio antropologico nelle mascherate d’inverno (Priuli &Verlucca, Torino 2015), Giovanni Kezich sintetizza a modo suo, a modo nostro, paganamente, il significato del discorso: “Ecco schierati in bell’ordine tutti i temi principali che abbiamo visto rappresentati nelle mascherate: il tema del rapporto con i defunti, i Lari, le divinità ctonie; il tema del capodanno, del rinnovarsi del tempo e dell’avanzare dei giovani con la benedizione di Bacco; quello della rigenerazione e risantificazione dei campi”. Di Kezich voglio anche citare una ardita e per me condivisibile ipotesi etimologica sui termini “carnevale” e “carnasciale”. Il primo, secondo lui, deriverebbe dal carmen arvale, il magico carme in versi saturni con il quale il sodalizio religioso dei Fratres Arvales (istituito da Romolo) consacrava i campi arati dell’Urbe. Il secondo trarrebbe origine invece nel carmen saliare dei “tripudianti” Salii, collegio danzante di giovani consacrati a Marte, padre divino dei Gemelli, nume avito di Roma e custode in armi dei suoi campi.

     

    In conclusione ci si può domandare se sia possibile dilatare la prospettiva, immaginando – ne ho accennato più volte, e anche sabato scorso, dedicandomi alla simbologia del dio Vertumno – che il diuturno carnevale dell’evo contemporaneo sia soltanto un disordine passeggero e necessario, una febbre del cosmo al di sopra della quale pochi autentici viri, eredi legittimi del mos maiorum, collaborano con le forze della natura. E già riluce l’Aurora della rinascita, e dalla negra terra spunta appena visibile il germoglio di una primavera uni-versa nella quale, aggiornando al tempo presente il nostro caro Orazio, giovani e forti canteremo:

     

    Privatus illis census est brevis,
    … commune magnum… nec fortuitum spernere caespitem
    leges sinunt, oppida publico
    sumptu iubentes et deorum
    templa novo decorare saxo.