Nel giorno dei Luperci era giusto occuparci della capra hircus, antica e ruminante benefattrice

Alessandro Giuli

    Ieri ricorreva la festa dei Lupercalia, sulla quale molto è stato detto e scritto (qualcosa anche qui): il 15 febbraio (XV Kal. Mar.), con le corregge ricavate dalla pelle di una capra sacrificata ritualmente, i giovani romani riuniti in sodalitates gentilizie (Quintili, Fabiani, Iuliei) lustrano, purgano e fecondano Roma muovendo dall’antro di Fauno in cui i divini Gemelli vennero accolti e nutriti dalla Lupa mansuefatta. Anche sul significato magico e ancestrale del lupo ci siamo diffusi in varie occasioni, ripetersi non sta sempre bene. Mi limito perciò ad ammonire sui cattivi propositi di chi oggi in Italia, seguendo i pessimi esempi d’oltralpe, per assecondare le (comprensibili) paure degli allevatori vorrebbe reintrodurre sia pure con alcuni limiti la caccia al lupo. Ecco, o stolti, non lamentatevi poi se Marte vi abbandona alla vostra pigra sedentarietà, al vostro amletismo debole, alla viltà di popolo-gregge, ai predatori oscuri; e se poi il primo neocon di risulta se ne esce che gli americani vengono dal pianeta Marte e gli europei da Venere (è vero che gli Eneidi discendono dalla nostra Diva Parens, ma non v’è discendenza senza il fulgore astato del Dio-Lupo).

     

    Detto questo, occupiamoci per una volta della capra, magnifico animale che tuttavia gode di fama chiaroscura. La sua potenza sessuale è divenuta nel tempo sinonimo di lascivia (complici certe paure tremebonde dei superstiziosi, che nel caprone satanico non sanno cogliere il loro specchio rovesciato…); la sua selvaticità è stata spacciata per trascuratezza (la capra puzza, dicono i bipedi moderni improfumati come eunuchi, ma certo non più delle loro coscienze infelici); il suo mite sguardo sempre stupito le ha attirato l’ingiusto attributo d’ignorante, lei che invece ha tali e tante qualità da renderla fra i più sereni e indipendenti animali, nonché intelligentissimi benefattori. Plinio riporta la storia di due capre che s’incontrano a metà di un ponte troppo stretto per un doppio passaggio, e così loro si consultano e poi una s’accascia e l’altra le passa sopra. Oplà. Sempre Plinio assimila la capra al lupo, perché entrambi avrebbero una vista splendente ed efficace anche al buio (provate a leggere oltre la lettera… Fatevi un po’ capre!).

     

    La fulva Amaltea è l’archetipo della nutrice di Giove fanciullo nell’antro Ditteo cretese, ricordatevelo ogni qual volta decorate le vostre case con una cornucopia, che è un corno della ninfa-capretta staccato per gioco e riempito di fiori e frutta opima dal Padre degli Dei grato per aver ricevuto il suo latte mielato. Senza nulla togliere alle belle e battagliere caprette italiche, qui ricordo ancora con trasporto la visione delle capre selvatiche cretesi, in tutto uguali alla loro rappresentazione misterica scolpita sulle gemme minoiche, che sbucano qui e là lungo i sentieri di montagna. Per esempio su una delle vette dedicate a Zeus, lì dove, assieme ai resti “abitati” di un santuario rupestre, le nostre amiche testimoniano la presenza di una forza inestinta. Oppure nel vestibolo dell’antro giovio nei cui penetrali offrimmo nettare e, una volta usciti, brindammo con il latte appena bollito di una capretta addomesticata dai gestori di uno spaccio locale.

     

    Sacro a Dioniso, il capro, come ci ricorda il poeta Anite tradotto da Quasimodo: “Guarda il capro di Bromio come posa / superbo l’occhio sul muso peloso: / lieto perché spesso, sui monti, il ricciolo / che porta intorno al mento / la Naiade prese nella rosea mano”. Sacra anche al dio guaritore Esculapio, la capra, e a Vediove, nume magmatico della Gens Iulia albana entrato nel Kalendarium cittadino e onorato con un sacrificio di sostituzione (humano ritu) a base appunto di capra rossa (cioè kreta, nella lingua ancestrale tirrenica).

     

    Di recente mi sono imbattuto in uno studio accurato di Fernando La Greca sulle inesauste virtù caprine – “La capra nell’economia, nell’alimentazione e nella medicina antica. Dai Romani al ‘siero Bonifacio’ per la cura del cancro”, in Cronache Cilentane IV, 2010. L’autore spiega come la capra hircus sia un elemento prezioso della dietetica e della farmacopea antica e contemporanea. Intanto perché le capre sono animali puri: evitano il cibo sporco, rasoterra, prediligono germogli alti e fronde curative (Alberto Magno), di qui la bontà risanatrice del loro latte e l’alto valore nutritivo della loro carne. Con lo sterco di capra, in varie combinazioni omeopatiche, si curano piaghe, morsi velenosi, rabbia, alopecia, gotta e perfino i tumori e la sclerosi multipla. Per lo meno così dicono da Galeno all’International Journal of Pharmaceutics, passando per Aezio di Amida, la Scuola Salernitana, Liborio Bonifacio (controverso inventore dell’omonimo siero, alla metà del secolo scorso). Da ultimo, scrive La Greca, questo “laboratorio chimico-farmaceutico naturale” chiamato capra mostra “inaspettate potenzialità terapeutiche… la sua risposta immunitaria a un virus genera anticorpi che sembrano in grado di proteggere anche contro le infezioni dovute a HIV”. Non stupisce che i nostri antenati utilizzassero le capre come ostie espiatorie, pharmakòi nei quali il più sano dei ruminanti raccoglieva dentro di sé i malanni comunitari e li stornava così dalla civitas. Nutrire gli umani con il proprio denso latte balsamico, sfamarli con le carni odorose; trasformare il loro veleno in farmaco, simboleggiando perfettamente la qualità magica dei numi salvifici: ecco il lavoro ermetico della capra hircus. E non dimenticate: quando vi sentite al riparo di qualcuno, sotto questa o quella “egida”, sempre lei dovete ringraziare: la sua pelle, divenuta ormai figura retorica, che protegge Giove dai Titani e riveste il petto gorgonico della Minerva glaucopide romana.