Che cosa c'entra il petrolio italiano con le ultime scoperte etrusche? Nel dubbio, leggete George Dennis
Fa sempre piacere leggere sui giornali che i ricercatori specializzati hanno scoperto questo o quel manufatto etrusco, e che finalmente – anche questa volta, finalmente – si potrà giungere alla quasi totale decifrazione di una lingua così arcaica e misteriosa. Adesso è il turno di Poggio Colla, nella valle del Mugello, non lontano da Firenze. Qui gli archeologi americani hanno appena scovato una stele in arenaria di quasi duecentotrenta chili, con un’iscrizione di settanta caratteri, deposta oltre duemilacinquecento anni fa nel basamento murario di un tempio, come una specie di segnacolo delle origini primeve della divinità cui fu consacrato quel culto. Se ne saprà di più nell’arco di pochi mesi, immagino, e nel frattempo appare lecito scatenare la fantasia. Conosco almeno mezza dozzina di libri sul “mistero svelato degli Etruschi”, con teorie più o meno funamboliche, promesse quasi mai veritiere, chiavi di volta sospese nel vento… ma auguriamoci lo stesso che qualcosa d’interessante salti fuori. In fondo, dicono, non è forse questo il nostro petrolio? Le vestigia dell’antico.
Può darsi, senz’altro è un petrolio meno inquinante e controverso di quello scavato in Italia dagli stranieri. Ecco, se esiste un punto di contatto su cui eccepire sta nel fatto che qui s’investe troppo poco, e il risultato è che sono gli istituti delle altre nazioni a radicarsi con ampie disponibilità nei luoghi più interessanti per la ricerca.
Dopodiché c’è straniero e straniero. Pochi profani sanno, per esempio, che l’etruscofilo inglese D. H. Lawrence (1885-1930, l’autore di “Etruscan Places”) ha un mirabile predecessore ottocentesco nel conterraneo George Dennis (1814-1898), forse il vero culmine della così detta “etruscheria”, quella passione semidilettantesca eppur poeticamente imprescindibile nata in età umanistica (Annio da Viterbo!) e sulla quale avrebbero poi poggiato le basi dell’etruscologia accademica. Del Dennis, una piccola e preziosa casa editrice senese (Nuova immagine) ha tradotto e pubblicato il celebre (per gli amanti del genere) “Città e necropoli d’Etruria”. Chi s’intenda un minimo d’editoria riconoscerà lo sforzo non meno monumentale di un tumulo tirrenico, visto che l’opera occupa due volumi da oltre seicento pagine ciascuno, riproduce la terza edizione (1883, la prima è del ’48) e comprende disegni, incisioni e cartine. Possibile privarsene? Come scrive Giuseppe Della Fina nell’introduzione, Dennis era un gentiluomo autentico nel quale archeologia e diplomazia si fusero armonicamente; i resoconti dei suoi vasti e lunghi pellegrinaggi nell’Etruria ottocentesca non sono poi così datati, e anzi conservano l’atmosfera innocente, aurorale direi, dei borghi laziali e tosco-emiliani ancora bene integrati nell’antichità di paesaggi silvestri sopravvissuti intatti, nei quali la fauna e la flora hanno sapientemente rianimato pietre e manufatti altrimenti stanchi, se non silenti. “Archeologia del Romanticismo”, la definisce Della Fina, e con tratti spesso disinvolti: “… non si vuole negare l’evidenza e cioè che Dennis – come la gran parte degli archeologi del centro e nord Europa del suo tempo – arricchì le collezioni del proprio Paese a scapito del patrimonio archeologico del Mediterraneo”. Certo, se oggi voglio meditare sulla potentissima immagine di Vanth, la Vittoria etrusca, dovrò forse andare nel British Museum a cercare un raro bronzetto che la raffigura… Preferiremmo tutti che la statuetta fosse qui, in Italia. Ma è sbagliato cadere in una forma residuale di materialismo sciovinista: la Vittoria etrusco-romana non è racchiusa in un metallo, sia pure nobile e sapientemente costrutto, abita invece nel cuore di chi si apra al risveglio delle forze naturali viventi nei luoghi di potere italici. Discorso complicato, in apparenza, e invece semplice semplice.
Oltretutto George Dennis ha molto amato l’Italia, al punto di parteggiare apertamente per la nostra causa risorgimentale: la sue passeggiate etrusche, i suoi scavi e le sue profonde ricerche non hanno disseppellito soltanto materiali e cumuli di bei cocci, hanno anche contribuito a propiziare la riemersione di simboli, forze e miti mobilitanti intorno ai quali si è raggrumata la rinnovata coscienza unitaria della Patria di nuovo in armi contro gli occupanti stranieri. Dennis si colloca idealmente accanto a figure come il volterrano Mario Guarnacci (1701-1785) o il veronese Luigi Adriano Milani (1854-1914), e via crescendo fino al veneziano Giacomo Boni (1859-1925), passando per il patriota bresciano Angelo Mazzoldi (1799-1864), autore del troppo poco noto ma decisivo studio intitolato “Delle origini italiche e della diffusione dell’incivilimento italiano all’Egitto, alla Fenicia, alla Grecia e a tutte le nazioni asiatiche poste sul Mediterraneo” (Milano 1840, ripubblicato nel 2006 dalle edizioni Victrix di Forlì). Di questa poderosa Rinascenza italiana, partecipò perfino il guelfo Vincenzo Gioberti con il suo “Primato morale e civile degli Italiani” (1843). Potrei continuare a lungo con citazioni e riferimenti, ma si rischierebbe di scadere nell’erudizione e perdere di vista l’essenziale. Nell’essenza dell’Italia non c’è il petrolio quello vero né quello metaforico delle vestigia antiche, né ci sono soltanto libri e mappe archeologiche. C’è piuttosto un Genio patrio fatto di innumerevoli fates, genii, lases e maniae (Dennis), scintille viventi di un mondo incantato che non ha mai smesso di palpitare, nell’attesa di uomini e donne tornati consapevoli della loro grandezza, per realizzare il prodigio quotidiano della giustizia sovrana (Iuppiter), della calma forza generosa (Mars) e della bellezza invitta (Venus). La scoperta di una stele iscritta non è mai causa, semmai è conseguenza di un ordito paziente tessuto dietro le quinte dagli araldi dell’ordine, del rito, del Nume.
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