Nel giorno di Romolo divinizzato si volga lo sguardo al Cielo, lì è Giove, la suprema coscienza

Alessandro Giuli
Oggi ricorre uno dei due anniversari dell’apoteosi romulea (l’altro è fissato a febbraio). Ovvero il giorno in cui il fondatore di Roma ascende al Cielo come Divus Romulus sive Quirinus.

    Oggi ricorre uno dei due anniversari dell’apoteosi romulea (l’altro è fissato a febbraio). Ovvero il giorno in cui il fondatore di Roma ascende al Cielo come Divus Romulus sive Quirinus. Non mi sembra così decisivo scegliere tra l’una e l’altra data, qui posso accennare al fatto che gli studiosi profani le mettono in relazione con la trebbiatura del farro in febbraio e con la sua mietitura in luglio, attività che cadono sotto la giurisdizione del Marte Tranquillo custode dei Quiriti e dei loro campi coltivati, gli arva. Più importante è cogliere il nesso verticale che unisce l’eroe fondatore – figlio di Marte e della vestale albana Silvia – con il suo destino celeste. Più ancora che per il solco delle origini, Romolo è essenziale come modello dell’ante-nato primigenio, il Vir che non reclama alcuna regalità prima d’aver realizzato in sé stesso una trasfigurazione ontologica, una metanoia tale da renderlo non già il presunto e passivo esecutore di una volontà numinosa quanto il tramite attivo di una forza che tende verso l’alto. Quella possibilità d’elevazione immanente alla condizione umana come suo apparente privilegio e come sua poderosa, autentica responsabilità. Si sa che “le fiere, tutte le specie di animali hanno il muso (o il becco) rivolto verso il suolo, per ottenere da esso ogni sorta di informazioni, seguire tracce, fiutare il cibo ed altro. L’animale si muove in una atmosfera magnetica limitata superficialmente al suolo; ha sguardo ottuso, privo di luminosità”. Non così l’uomo, che “ha il capo nel cielo, la sua statura sta in posizione eretta, il capo ne è la sommità. Ai suoi piedi tocca l’onere di sostenerlo sulla terra, ma è anche un privilegio se il passo dell’uomo è rispettoso. Lo sguardo, la sua pupilla devono esprimere consapevolezza e controllo di sé, sicura cognizione di ciò che lo circonda. Anche fiducia nel Cielo… l’uomo respira nell’atmosfera terrestre, come tutti gli altri esseri della natura, il suo sguardo rivolto al cielo è limitato nel giro dell’orizzonte”.

     

    E di che parliamo, dunque, quando parliamo del Cielo? Ovidio nelle sue Metamorfosi (II, 5-7) allude a una possibile etimologia da caelare, cesellare o ricamare: materiam superabat opus: nam Mulciber illic / aequora caelarat medias cingentia terras / terrarumque orbem caelumque, quod imminet orbi; e con questa voce attribuisce a Volcanus (Mulciber: colui che addolcisce il ferro) la trama dell’oceano, dell’orbe terrestre e appunto del cielo che qui manterrei minuscolo. Uno scolio alla Tebaide di Stazio (3,262) invece suggerisce che caelum dixere ideo, quia apex eius omnibus invisibilis est; e dunque caelum a celare o coelare. Quasi a dire che la vera comprensione del Cielo è preclusa a chi non abbia la determinazione interiore a coglierne l’apex, la sommità, parola che in latino designa anche il culmine del copricapo di cui è titolare il massimo sacerdote di Giove, il Flamen Dialis. E questo perché “il Cielo ha suprema coscienza e vastità di coscienza, l’immortalità del Nume. Il Cielo è il sommo tra gli dei, Giove. E’ luminoso, oscuro, sereno, tempestoso; parla attraverso il tuono, il tumulto dei venti; esprime le sue sensazioni con la pioggia, le nevicate, la grandine, il lampo, l’arcobaleno. Tutto il suo essere è indipendente, vive nella sua dimensione divina. E’ Giove. La somma coscienza di questo Nume investe tutta la Terra e tutta la Natura, le cui divinità sono a lui soggette perché nel limite naturale. Sappiamo invece che non c’è limite alla coscienza di sé, cioè alla consapevolezza, alla conoscenza, così è anche per il Cielo, Giove”. Come sia possibile all’uomo romuleo la conoscenza del Cielo gioviale è una questione, dicevamo all’inizio, ontologica: attiene all’essere profondo del Vir libero dalla congerie limitata delle sue personalità, dei suoi molteplici e spesso contraddittori “giri d’orizzonte”, delle sue vane, asiatiche pretese di un sommo Dio personale che si curi delle terrene vicende: “Così è il Cielo, cioè Giove. E’ colui che attraverso il continuo movimento cela il Nume immortale, colui che sta, Giove Statore. A questo Nume l’uomo, in quanto tale, è indifferente. Ma se l’uomo fa di sé stesso un Cielo, attraverso movimento e azione, egli sarà in grado di entrare in confidenza (da confidere) con il Cielo. In grado di intrattenere rapporti con il Cielo. Il divenire umano, se indirizzato a espandersi al di là della mera naturalità e al di là dei limiti stretti della ragione, per rivendicare, eroicamente, divino sapere, deve necessariamente rivolgersi alla Suprema Conoscenza, e allora soltanto Giove può stare a fianco dell’Uomo, venirgli incontro in ogni grande libera impresa. Giove, infatti, non è il padrone dell’uomo. La natura può farne uno schiavo, può definitivamente incorporarselo. Giove no! richiede però che quella umana coscienza in divenire, retta da stabilitas e firmitas, non si adagi, continui nell’ampio respiro del raggiunto Cielo, senza tracotanza e hybris. Aratro o remo, muova verso l’areté, verso l’eccellenza dell’arte, susciti Armonia. Questo solo patto è valido”. E’ il patto romuleo con Iuppiter, esemplato mitistoricamente sull’analogo patto stabilito da Enea che, “venuto fuori dalla natura corrotta dell’asiatica Ilio, raggiunta la patria vera, eroico stato dall’umana condizione, può affermare la vicinanza di Giove ai combattenti dello spirito, ai Teucri tutti che combattono per definitivamente purificarsi dalle scorie infime del disfacimento d’un mondo crepuscolare. Occidit occideritque sinas cum nomine Troia!”.


    Riecco i versi vergiliani toccati nel giorno di Giove Statore: “… Celso medius stans aggere fatur: Ne qua meis esto dictis mora, Iuppiter hac stat, neu quis ob inceptum subitum mihi segnior ito. Enea ritto, medius stans, aggere ‘celso’ parla ai suoi e annuncia: Giove è con noi, hac stat! – Una Auctoritas. – Il patto è conchiuso e Romolo poi fonderà Roma”: Iuppiter, tuis iussus avibus hic in Palatio prima urbi fundamenta ieci. Oggi, non per caso, è festa di Giove e di Romolo.