La consapevolezza del Padre Indigete nasce nell'armonia di Spes e si effonde nella Salus della Res Publica

Alessandro Giuli

    Nella ricorrenza delle celebrazioni in onore del Sole Indigete, paterna intelligenza suprema simboleggiata dall’astro splendente il cui raggio è la linfa originaria dei popoli italici (Ausil-Ausonia-Italia), ogni paterfamilias dovrebbe ricordare l’importanza della funzione di guida che riveste per la sua familia, la sua gente, i suoi cari (non escluso il piccolo bioparco fatto di animali domestici). E’ un ruolo che riflette in scala la responsabilità di chi guida il proprio popolo, e che nella tradizione nostra viene esemplificato dalla figura del capostipite Enea, eroe divinizzato attraverso l’immersione nelle acque del fiume Numicio. Così ci è tramandato: “E’ dovere dei Re, dei Consoli, è dovere di chi pratica le virtù aristocratiche guidare e proteggere il proprio popolo e amministrare la Giustizia. Solo chi esercita questa alta virtù potrà infine bagnarsi nel fiume Numicio, il fiume dei Numi, ov’è quell’alimento celeste che trasforma in Padre della Patria il Vir sapiente, giusto e valoroso. Enea fu per questo proclamato dai discendenti Dio Padre Indigete. Illic sanctus eris, cum te veneranda Numici unda / Deum coelo miserit Indigetem. Così Tibullo”.
    Ma come si esercita tale virtù paterna? Nel calendario romano si giunge al Padre Indigete (9 agosto) passando per Spes e Salus (1° e 5 agosto), due forze numinose che i moderni studiosi definiscono “divinità astratte” per rimarcarne l’arcaicità. In effetti si tratta, sì, di primeve divinità, ma nient’affatto astratte, anzi, concretissime direi: immanenti alle qualità superiori dell’uomo. In un’ode alla Fortuna Orazio pone accanto alla Spes la Fides: “Te Spes et albo rara Fides colit/velata panno”. Ci viene insegnato che i Romani, fosse la sorte favorevole, prospera, fosse avversa, ne era sempre artefice l’uomo. Spes non ha nulla a che vedere con l’abbandono superstizioso a una supremazia trascendente e capricciosa: “Nella concezione mediorientale e nelle religioni che ne sono derivate, ‘fede’ e ‘speranza’ rappresentano l’adesione incondizionata e irragionevole alla volontà e ai capricci di una entità tirannica, aliena all’uomo, il quale, purché credente e sottomesso a tale entità, ne dovrebbe ricevere i benefici… Speranza, per il Romano era tendere verso una mèta ben determinata e non lo stare passivamente in aspettazione. Speranza non era attesa nel tempo di una concessione da parte di una superiore onnipotenza; attesa di un bene futuro. Piuttosto era un dilatare ed espandere l’impulso volitivo per raccoglier le energie sufficienti e farle convergere alla meta desiderata; e ciò nello spazio del qui e ora. Quindi una Spes certa: realtà concreta, realizzazione umana nell’afflato dell’armonia divina”. Ci conforta la lingua dei Padri:

     

    Fides, ei, f., fiducia, fede, fedeltà, lealtà, buona fama.
    Fides, is, f., corda di strumento musicale, al plurale cetra, lira, poesia.
    Fides, dea.

     

    Fides è la Virtù della lealtà che accredita le persone, e le parole se convalidate dai fatti. E’ la Virtù quindi che impone di adempiere i propri obblighi, ma anche di non trascurare le promesse. La Fede per il Romano non era riporre un’acritica fiducia in un dogma o in un libro contenente parole consacrate da un’autorità ecclesiale. La Fede è la parola che si realizza e attraverso la realizzazione giunge all’essenza del voluto”. Confermata da fatti certi, Spes agisce “nella luce dell’indubitabile”: “Solo la Romana Disciplina, la virile Virtus, la divina Concordia, potranno procurare Vittoria e Fortuna”.

     

    Quanto a Salus, non è la generica figurazione dello star bene, né la dea che propizia il benessere personale (come è invece Valetudo, o come la greca Igea): è connaturata all’Essere – qui l’abbiamo da poco riconosciuta nell’aria salubre delle Dolomiti, nei prati roridi, nei boschi solenni di abeti, nel respiro gioioso della gente alpestre che intaglia nel legno gli gnomi custodi del luogo, dedita com’è alla festante ospitalità avita, incoronata dai ghiacci perenni. Salus è “l’essenza stessa della vita, il caposaldo della super-vita. L’Essere primordiale non può andar soggetto a patologie, a sofferenze, non può danneggiare, ridurre sé stesso”. L’uomo invece corre questo rischio quando, vittima di “una superstiziosa credenza, vien considerato una misera creatura, estremamente limitata; assoggettato da una ineluttabile necessità alla sofferenza e alla morte, se gli è negata quella libertà indispensabile per poter sviluppare sé stesso sulla via dell’evoluzione spirituale. Si tenta di impedire così, con un perfido dogma, alla persona umana di conoscersi, d’avviarsi sulla via della piena consapevolezza di sé”. Bisogna ripudiare la superstitio che precipita gli animi alla rovina; evitare l’ambizione, la corruzione, le passioni, l’invidia, l’avarizia, tutto ciò che si cronicizza in morbosità e porta al disfacimento. Poiché “la Salute dell’uno è la Salute di tutti. Salus è l’Essere che vigila sé stesso e che ha il potere di superare ogni stato morboso. Il divenire spirituale dell’uomo, il suo divenire culturale, civile e sociale sono assicurati da Salus. La malattia colpisce l’uomo indebolito, corrotto, in cui s’è radicata la disperazione di ritrovar salute; la corruzione, il contagio colpiscono allora una intera società; nell’un caso e nell’altro ciò significa paralisi del movimento, irrigidimento (rigor mortis), cioè rinuncia alla vita, all’azione, allo splendore della vera Conoscenza, all’ Universa Armonia”. Come non avvedersi, dunque, che l’autentica Salus è Publica, ed è quella condizione in cui l’uomo sacrifica ogni utilitarismo, ogni inclinazione individualistica, consapevole del rapporto intimo tra sé e la propria comunità di destino? Svilire sé stessi, ammalare di avidità e d’invidia il proprio essere (microcosmo), reca offesa alla Res Publica che è una manifestazione della Universa Armonia (macrocosmo). Un delitto causato dalla superstizione, contro il quale ogni Pater è chiamato a indigitare la saldezza benefica del Sole.